Esistiamo – io che scrivo e tu che leggi. Siamo di sicuro molto diversi, ma entrambi abbiamo almeno due cose fondamentali in comune: esistere ci pone problema, e quando questo problema diventa particolarmente acuto, sentiamo l’irresistibile fascino di una vita dimentica di sé e della propria misteriosa esistenza. Come la vita della rosa di Silesio:

La rosa è senza perché,
fiorisce poiché fiorisce;
di sé non gliene cale,
non chiede d'esser vista.

«Di sé non gliene cale»: questo è un lusso, se così vogliamo considerarlo (poiché, appunto, la rosa non può propriamente goderselo), che a noi non è concesso. Di noi ce ne cale, eccome. O, come avrebbe detto Heidegger, per questo ente, che noi siamo, «nel suo essere, ne va di questo essere stesso» (2011, § 4). E in tale andarne ci capita di fare tante cose, tra cui ricercare la conoscenza su noi stessi, su ciò che ci muove, su ciò in cui ci muoviamo e, in ultimo, sul senso di questa strana avventura che chiamiamo “vita”.

Il libro di Stefano Oliva, L’elefante e il poeta, si occupa proprio di questo: del nostro tentativo di capire noi stessi e il mondo, e lo fa concentrandosi sugli intrecci tra tre forme di sapere che, ciascuna a suo modo, puntano il dito su quei luoghi dell’esperienza umana nei quali maggiormente sentiamo non solo che ne va di noi stessi, ma anche che in questo andarne stiamo facendo importanti passi avanti per capire chi siamo. Sto parlando di mistica, estetica e psicoanalisi, tre discipline che, come chiarisce efficacemente Oliva nell’Introduzione e diffusamente nei capitoli successivi del suo libro, sono da sempre al centro di dubbi circa la loro scientificità e legittimità in quanto forme di sapere. Ciò in parte è dovuto alla natura dei loro oggetti: l’esperienza mistica, l’esperienza estetica e l’inconscio sembrano infatti sottrarsi a quel tipo di rigore cui siamo soliti attribuire il carattere paradigmatico della scientificità e dunque del sapere.

Eppure, come sappiamo, questi ambiti sono reali ed estremamente importanti. Sono le piccole o grandi epifanie che costellano, che lo riconosciamo o meno, il nostro vissuto a lasciare le più tracce più profonde nelle nostre vite e nel nostro intendimento di noi stessi. Che si tratti dell’esperienza della radice del castagno di Roquentin (il protagonista della Nausea di Sartre); o del fischio del treno della novella di Pirandello; o ancora del sentimento oceanico al centro dello scambio fra Rolland e Freud (Hulin 2000, cap. 1); in tutti questi casi – e molti altri che potremmo non stancarci di citare – ci troviamo dinanzi ad un incontro inatteso e a prima vista incomprensibile con ciò che chiamiamo “vita” e con il suo al contempo affascinante e terribile mistero.

Il libro di Oliva si occupa dunque di qualcosa di fondamentale: se il fiorire è il gesto essenziale della rosa, per noi è essenziale proprio questo sostare nei pressi del mistero che siamo. Ed è ironico che proprio ciò che è così importante per noi sembri anche sfuggire allo “strumento” principale di cui disponiamo per comprendere: il linguaggio. Non è un caso, dunque, che proprio il linguaggio della mistica, della psicoanalisi e dell’estetica sia il tema centrale della discussione di Oliva. L’elefante e il poeta che danno il titolo al libro rappresentano infatti due modi differenti di intendere il rapporto tra il linguaggio e la “cosa” che incontriamo quando sentiamo il treno fischiare, quella “cosa” che sembra in un qualche modo essere al di là o al di qua di ciò che il linguaggio ci consente di vedere.

L’elefante e il poeta assurgono così a figure di due usi lingustici alternativi e a due concezioni opposte dell’aldilà del linguaggio: da un lato la pretesa di una massiccia e ingombrante cosalità prelinguistica, che il linguaggio si incaricherebbe di esprimere solo a posteriori, e dall’altro la consapevolezza del carattere costitutivo della parola; nel primo caso, il tentativo disperato di risalire all’originaria esperienza immediata del mondo e nel secondo caso la consapevolezza che non vi è altra via d’uscita dal linguaggio se non il suo “divenire essenziale”, che implica l’abbandono delle dicotomie – accidentali ma costrittive – con cui le parole ci tengono prigionieri (Oliva 2024, p. 129).

Nella prima concezione, dunque, ciò che si intuisce nell’esperienza mistica non è catturabile linguisticamente. Questa prospettiva, che è in diverse forme diffusa nella storia del pensiero – e che è in un qualche modo implicita ogniqualvolta si descrive l’ambito del mistico come l’ambito dell’ineffabile – viene messa da parte in questo libro, poiché per Oliva non esiste un’esperienza non linguistica del mondo. Oliva propende dunque per la seconda posizione, secondo la quale la “cosa” della mistica è resa visibile proprio grazie al linguaggio. Ma grazie a un linguaggio che, in un qualche modo, deve compiere, come noi, la propria ascesi per giungere alle possibilità che gli consentono di indicare ciò che sembra a prima vista completamente ineffabile.

Attraverso il dialogo con altri autori che hanno intrapreso questa seconda via del poeta, come Lacan e Certeau, Oliva esplora il difficile compito di pensare un linguaggio che sia in grado di sostare nei pressi di ciò che sembra ineffabile. Il compito è arduo ma è anche in un qualche modo ineludibile. Poiché, diversamente dalla rosa di Silesio, di noi ce ne cale, e ce ne cale nella forma del linguaggio (è pensabile un’altra forma?). Perciò non possiamo esimerci dal cercare di dire ciò che intuiamo in quei momenti in cui ci sembra di vedere il mondo, o noi stessi, per la prima volta. In questo senso, anche noi, come Oliva, e come Wittgenstein in fondo, non possiamo fare a meno di dire qualcosa su ciò di cui non si può parlare.

Riferimenti bibliografici
M. Heidegger, Essere e tempo, Mondadori, Milano 2011.
M. Hulin, Misticismo selvaggio. L’esperienza spontanea dell’estasi, Red Edizioni, Como 2000.

Stefano Oliva, L’elefante e il poeta. Mistica, estetica e psicoanalisi, Mimesisi, Milano-Udine 2024.

Tags     linguaggio, mistero
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