È il 15 febbraio 1961, mattino presto. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sta ascoltando l’intervento dell’ambasciatore statunitense Adlai Stevenson. Il teso silenzio che avvolge le sue parole viene improvvisamente squarciato da un grido straziato, un coro di voci adirate che ripete senza posa un solo aggettivo “Murderers!”, assassini – e un nome – quello di Patrice Lumumba, il primo ministro della Repubblica Democratica del Congo che quasi un anno prima aveva condotto il suo Paese, almeno sulla carta, all’indipendenza dal potere coloniale belga. Le urla provengono da un gruppo di sessanta attivisti che si sono infiltrati nell’assemblea grazie al sostegno della delegazione cubana, decisi ad accusare pubblicamente le grandi potenze occidentali di complicità o connivenza nell’omicidio del leader congolese, ucciso poche settimane prima a seguito di un colpo di Stato. In questo coro furioso e scomposto si riconosce, tra le altre, la voce della cantante Abbey Lincoln.

L’anno precedente, quella stessa assemblea era stata teatro di una vera e propria rivoluzione: sedici Paesi dell’Asia e dell’Africa erano entrati infatti, appena conquistata l’agognata indipendenza, a far parte delle Nazioni Unite. Per quanto fossero pressoché ininfluenti sullo scacchiere internazionale, queste giovani nazioni erano riuscite, esercitando il loro diritto di voto in un blocco compatto, a imporre all’Organizzazione le istanze delle loro battaglie anti-imperialiste. Esito tra i più celebrati di questa grande ondata decoloniale, la liberazione del Congo belga, ratificata il 30 giugno 1960, era stata accolta dall’Africa tutta come una grande vittoria ma si sarebbe presto rivelata il prologo di uno scontro feroce le cui ferite non hanno ancora smesso, oggi, di sanguinare. Deciso a mantenere il controllo sulle ricchezze minerarie del territorio, infatti, il governo belga avrebbe immediatamente cominciato a tramare con l’amministrazione Eisenhower – a sua volta determinata a tenersi stretto l’accesso alle forniture di uranio provenienti dal sud del Paese e indispensabili per la fabbricazione di ordigni atomici – per minare l’indipendenza della neonata Repubblica Democratica disintegrando anzitutto l’élite intellettuale che l’aveva così faticosamente rivendicata.

Nel suo Soundtrack to a Coup d’État Johan Grimonprez indaga questo capitolo oscuro della Guerra Fredda proponendone una ricostruzione tanto entusiasmante quanto rigorosa. La cura filologica con cui il regista maneggia la mole impressionante di documenti presi in esame (ognuno dei quali è corredato da una nota in sovrimpressione che ne esplicita puntualmente la fonte) non conferisce in effetti al documentario un tono didattico e freddamente illustrativo: Grimonprez non si limita, infatti, a raccontare le vicende che vuole ricostruire, ma le pensa – o, meglio, le ripensa – perseguendo così l’intento dichiarato di problematizzare una narrazione consolidata, decostruendola prima e riconfigurandola poi insieme allo spettatore che, invece che ricevere semplicemente l’esito di questa riflessione, viene reso partecipe dell’intero processo.

Il film appare in effetti come una lunga e sentita meditazione sulle responsabilità (e sulle colpe) delle grandi potenze occidentali in relazione ai drammi che affliggono da secoli le regioni più povere del mondo. Per condurre efficacemente questa riflessione, il documentario si serve del montaggio come di un vero e proprio strumento conoscitivo, un mezzo capace di articolare pensieri attraverso un’organizzazione significante di testi audiovisivi. Come assumendo dunque la forma di un «saggio», Soundtrack to a Coup d’État «compone sperimentalmente, volta e rivolta il suo oggetto, lo interroga […], lo esamina, lo penetra con la riflessione» (Bense 1947, p. 418): grazie al montaggio, il film raffronta dialetticamente i diversi documenti presi in esame interrogandoli e mettendoli in questo modo, per così dire, alla prova. Potremmo concludere allora, con Adorno, che esso manifesta «una tendenza critica»: mette «i testi a confronto con il loro concetto enfatico, con la verità che ognuno di essi, anche involontariamente, esprime» inducendo così i concetti stessi «a riflettere sulla propria non verità» (Adorno 2021, p. 40).

Un ruolo di primo rilievo in questo processo è riservato alla musica, la cui centralità emerge tanto sul piano del contenuto quanto su quello della forma. Da notare è anzitutto l’insistenza con cui l’elemento musicale risulta tematizzato dal racconto che sembra procedere portando avanti due percorsi paralleli ma continuamente intersecati: da un lato la ricostruzione delle vicende più propriamente politiche, concernenti le parole e le azioni dei grandi attori internazionali, dall’altro la storia della musica – soprattutto la musica jazz – con le sue forme e le sue idee così profondamente implicate nei coevi rivolgimenti sociali e culturali. Alternando e intrecciando questi due binari, il film ci dice costantemente come la musica sia stata al tempo stesso lo specchio, il veicolo e il detonatore di molte delle questioni che animavano un lato e l’altro della cortina di ferro. Mentre le note di Indépendance Cha Cha, inno alla liberazione dell’ex-Congo belga, attraversavano l’Africa nera imponendosi come simbolo del movimento anticolonialista, Eisenhower utilizzava il tour congolese di Louis Armstrong – il suo “ambassador of love” – come una cortina fumogena che avrebbe dovuto permettere alla CIA di assassinare indisturbata Patrice Lumumba: ripercorrendo questi e molti simili episodi, Soundtrack to a Coup d’État ci racconta (lo fa fin dal titolo) il legame tra la storia della musica e la storia del mondo.

Oltre ad essere oggetto privilegiato del racconto, la musica abita il film in modo tanto ingombrante da saturarlo pressoché integralmente. Ricolma e a tratti asfissiante, la colonna musicale non funziona da semplice commento alle immagini ma vi interagisce in modo profondo istituendo con esse una relazione significante. Se in alcuni casi la musica si pone in piena armonia con il contenuto delle immagini, aiutando così lo spettatore a sentire ciò che esse raccontano, in altri invece genera un’acuta e spesso amara dissonanza capace di mettere in risalto ambiguità e ipocrisie. È così allora che mentre Larry Devlin – capo in quegli anni della sezione della CIA di stanza nella Repubblica Democratica del Congo – ammette di aver ricevuto l’ordine di assassinare il premier congolese direttamente dal capo del governo statunitense, la tromba di Armstrong canta dolce e sognante La vie en rose. In virtù di questa sua sovrabbondanza la musica sembra trovare la sua massima eloquenza, però, proprio nei rari momenti in cui essa scompare: è lì, infatti, che paiono prendere forma i nodi più profondi della riflessione che il film tutto mira ad articolare. Collocandosi quasi sistematicamente in corrispondenza di primi o primissimi piani dei volti di personaggi di alto rilievo, spesso colti in atteggiamenti pensosi, questi silenzi assordanti sembrano come accerchiarli, metterli “spalle al muro” chiudendo ogni via di fuga e imponendo così loro di confrontarsi una volta per tutte con le proprie responsabilità.

Ancora più radicalmente, da ultimo, il regista sembra però servirsi della musica anche quale vero e proprio strumento compositivo, adoperandone il linguaggio specifico per costruire la forma del suo documentario e delinearne struttura complessiva e scansione interna. Prima ancora e più ancora di un “film sul jazz”, Soundtrack to a Coup d’État si configura infatti a tutti gli effetti come un “film jazz” sul cui ritmo sincopato si susseguono sequenze-ritornello che ricorrono puntuali, sempre identiche ma sempre variate, e momenti più liberi, di ampio respiro, dove l’energia si sprigiona sottoponendo il tema esposto in precedenza a una radicale rielaborazione, mentre i personaggi e le idee, come le forme, si rispondono e si raffrontano reinterpretando a turni una stessa melodia. Ne risulta un’opera estremamente coinvolgente, una lunga suite che ripercorrendo il tortuoso percorso di un popolo verso la conquista della libertà scuote violentemente le nostre coscienze, facendoci sentire l’urgenza di riflettere sul passato per meglio comprendere il presente.

Riferimenti bibliografici
T. W. Adorno, Il saggio come forma, in Id., Note per la letteratura, Einaudi, Torino 2021.
M. Bense, Über den Essay und seine Prosa, in “Merkur”, I, 1947.

Soundtrack to a Coup d’État. Regia: Johan Grimonprez; sceneggiatura: Johan Grimonprez; fotografia: Jonathan Wannyn; montaggio: Rik Chaubet; interpreti: Fidel Castro, Louis Armstrong, Miles Davis, Dwight D. Eisenhower, Nina Simone; produzione: Onomatopee Films, Warboys Films; distribuzione: I Wonder Pictures; origine: Belgio, Francia, Paesi Bassi; durata: 150′; anno: 2024.

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