Il suono di una chitarra elettrica, la macchina da presa si avvicina al batterista del duo metal Blackgammon, Ruben Stone (Riz Ahmed), che ascolta attentamente. L’uomo attende l’attacco della cantante Lou (Olivia Cooke) per iniziare a suonare. Fin dalla prima scena, lo spettatore viene calato nell’universo del protagonista, immerso da suoni e da rumori. Il giorno seguente il concerto, la vita di Ruben cambia radicalmente, dal momento che, improvvisamente, comincia a perdere l’udito, non sappiamo se per l’eccessiva esposizione a forti rumori o per una malattia. Lo shock percettivo colpisce il protagonista così come lo spettatore, che ne condivide il punto d’ascolto, il suono diventa ovattato e coperto da un continuo ronzio. Durante l’esibizione successiva, la voce di Lou e il suono della batteria diventano distanti, sempre più flebili.
Sound of Metal di Darius Marder riflette la natura dell’esperienza traumatica del protagonista, lo smarrimento dell’individuo perso in un vuoto, principalmente attraverso l’auricolarizzazione, il rapporto tra ciò che sente il personaggio e quello che sente lo spettatore. Nella prima visita dall’otorino Ruben e il medico sono in due stanze diverse, separate da un vetro. Nel momento in cui la macchina da presa rimane vicino al batterista siamo sintonizzati sulla sua stessa frequenza, condividiamo il suo punto d’ascolto, non riusciamo effettivamente a percepire le parole dello specialista. Al contrario, nell’inquadratura in controcampo, nell’altro ambiente, torniamo ad una percezione sonora oggettiva, sentiamo chiaramente la voce del medico così come quella di Ruben.
Schegge di parole, distorsioni, interferenze disorientano l’uomo che deve necessariamente cambiare prospettiva, prendere coscienza e dimestichezza con un nuovo linguaggio, esplorare e scoprire nuove forme e sonorità. Dove prima c’era rumore ora c’è silenzio. Nel centro di accoglienza per sordi, gestito da Joe (Paul Raci), un reduce del Vietnam che ha perso l’udito a seguito dell’esplosione di una granata, Ruben ritrova un punto di contatto con l’altro, una forma di interazione. Non assistiamo più a ovattamenti e distorsioni, non viene rappresentata la percezione soggettiva del protagonista, che attraverso il linguaggio dei segni si re-inserisce all’interno di un ambiente “mediale” che diventa a lui familiare. “Devi capire che stiamo cercando una soluzione per questa (indicando la testa), non per queste (facendo riferimento alle orecchie)”, dice Joe. Ruben infatti inizialmente non prende piena coscienza della sua situazione, cercando, attraverso un’operazione, di riacquisire la propria condizione originaria. Tuttavia l’impianto non restituisce una percezione uditiva del mondo esterno a cui era abituato ma, in una coazione a ripetere, ritornano le distorsioni e gli ovattamenti. Lo spettatore ancora una volta, attraverso l’auricolarizzazione, subisce uno shock percettivo costante, nel passaggio da una dimensione ad un’altra, immerso in una realtà che ormai non appartiene più al protagonista.
Questo movimento dentro e fuori differenti ambienti sonori, atto a riflettere e restituire nella percezione sonora la frattura esistenziale dell’individuo, richiama il film di Amir Naderi Sound Barrier (2005). Il film racconta di Jesse, un bambino sordomuto che cerca di scoprire il segreto che lo perseguita, legato alla propria malattia e svelato dalla madre, ormai morta, nel corso di un talkshow radiofonico dal titolo Life in Fragments. Il ragazzino cerca di riunire i tasselli (i “frammenti”) chiedendo ad un passante di ascoltare l’audiocassetta in cui è stata registrata la testimonianza della donna e di comunicargli il contenuto, che lui riesce a carpire leggendo il labiale. La percezione soggettiva di Jesse, in cui lo spettatore può calarsi quando la macchina da presa si avvicina al ragazzino o inquadra particolari del suo volto o dell’orecchio, si alterna con un mondo caotico a lui alieno, i rumori della strada e del traffico urbano di New York. Comprese le parole della madre, Jess completa la ri-elaborazione dell’accaduto e sembra, piano piano, riacquistare l’udito (perduto a seguito di un trauma), sentire i rumori ed emettere suoni.
Analogamente, Sound of Metal si conclude con un processo di ri-elaborazione. Ruben prende coscienza dell’impossibilità di tornare alla situazione precedente ma di dover necessariamente cambiare la frequenza e la regolazione della propria esistenza. Infastidito dal rumore distorto della realtà che lo circonda – i bambini che giocano, il traffico urbano, il suono di una campana – l’uomo spegne l’apparecchio acustico per ritrovare la quiete, lasciare spazio a quella contemplazione che aveva trovato solo nell’atto di testimoniare, scrivendo su un quaderno le proprie sensazioni ed esperienze, come gli aveva suggerito Joe. Per completare il processo di ri-elaborazione occorre dunque tornare all’ambiente che gli appartiene, aprirsi e verificare la propria esperienza attraverso le relazioni con chi condivide la sua stessa situazione, come le persone del centro di accoglienza o i bambini sordo-muti nelle scuole. Un ambiente in cui il medium diventa il segno, il gesto, e non più la parola.
Sound of Metal. Regia: Darius Marder; sceneggiatura: Darius Marder, Abraham Marder; fotografia: Daniël Bouquet; montaggio: Mikkel E. G. Nielsen; interpreti: Riz Ahmed, Olivia Cooke, Paul Raci; produzione: Caviar, Flat 7; distribuzione: Prime Video; origine: Belgio, Stati Uniti; anno: 2019; durata: 120’.