Il ritorno comico del fascismo nella società dello spettacolo

di LUCIANO ATTINÀ

Sono tornato di Luca Miniero. 

Luca Miniero, regista avvezzo alle operazioni di riadattamento shot by shot di film stranieri, con Sono tornato traduce, per la sensibilità del pubblico italiano, il film tedesco Lui è tornato di David Wnendt (2015). Wnendt attraverso una riflessione metalinguistica sul potere che hanno i media (soprattutto il cinema) di riscrivere la Storia, racconta il ritorno di Hitler nella Germania odierna alle prese con emergenze migratorie e rigurgiti nazionalisti. Miniero, dal canto suo, sostituisce al führer Benito Mussolini e racconta il viaggio attraverso il Belpaese che il duce compie, in compagnia del documentarista Andrea Canaletti. Quest’ultimo spera di farsi assumere nuovamente dall’emittente televisiva da cui è stato licenziato, proponendo una serie di filmati per YouTube, nei quali Mussolini intervista un discreto numero di “italiani qualunque”. L’esperimento ha successo e il dittatore inizia una nuova scalata al potere nelle vesti di comico.

Risulta interessante, nell’operazione di Miniero, lo spostamento linguistico del titolo, dalla terza persona singolare alla prima, che rivela la volontà di rendere il pubblico stesso l’interlocutore del discorso critico portato avanti da Mussolini, nei confronti dell’odierna società italiana. A tale fine il film concentra la propria attenzione sul medium televisivo, tralasciando il cinema e facendo largo uso di quel procedimento di ri-mediazione di immagini, prodotte al di fuori del linguaggio filmico, che porta a inglobare frammenti di realtà – video con opinioni della gente comune – in una trama di finzione la quale, fra le altre cose, cerca di far passare per reali, azioni recitate da attori. Sono tornato si inserisce così, di fatto, in quella zona liminare dell’estetica di un cinema digitale che ama flirtare sia con l’ormai canonizzato linguaggio della real-tv, che con quello dei new media.

Il lavoro di Miniero può allora essere letto attraverso il filtro della categoria estetica di finta diegetica individuata da Jost. Tanto che la sua profonda natura si svela nel tentativo di porre lo spettatore davanti a una frattura cognitiva, per la quale egli non è più in grado di distinguere quanto di reale e quanto di falso vi sia nella visione del mondo entro cui si trova catapultato. Il pubblico diventa partecipe della pretesa oggettività di una rappresentazione della società italiana, in cui l’ignoranza è divenuta virtù e la nostalgia verso un passato orrendo, con annesso razzismo, non fa presagire nulla di buono per il futuro. Il regista e lo sceneggiatore Guaglianone, a loro volta, rafforzano questa impressione, innestando tale realtà in una narrazione dove la cifra della modernità passa attraverso la messa in scena di una società dello spettacolo casereccia, plasmata dalla più becera televisione commerciale, in cui ogni avvenimento diventa una evento pop.

Eppure nessuna ferocia satirica riesce a emergere da tutto ciò. Il film non assume mai i toni tragici e neo-espressionisti verso cui lentamente l’originale tedesco virava. Piuttosto si assesta su un registro comico, che solo nel finale si concede un tocco grottesco, preferendo rimanere entro i limiti del genere commedia. E proprio la commedia all’italiana fornisce il quadro di riferimento culturale e ideologico, entro cui la messa in scena si articola. Come ricorda Gianni Canova (1999), questo genere tende a restituire una rappresentazione della società riconciliante, dove non vi è posto per individui fuori dalla norma e per conflitti insanabili: una realtà in cui appare già attuata all’interno della civiltà quell’indifferenzazione identitaria, la cui minaccia, nelle tragedie greche, faceva scaturire il meccanismo del conflitto tragico. Il mondo della commedia all’italiana, perciò, si configura come un mondo post-tragico, dove, tra l’altro, il potere non può essere mai messo in discussione, tutt’al più deriso, spesso solo per nascondere una celata ammirazione verso coloro che se ne sanno appropriare.Sono tornato fa sua questa visione con una certa ambiguità. Descrive un paese vittima della cancellazione del senso di tragedia e della memoria storica, per cui chi perde può sempre ritentare la sorte. Mussolini, infatti, può far breccia nel cuore del popolo, semplicemente indossando la maschera del comico e riproponendo quelle idee che la Storia ha chiaramente decretato come perdenti: in una mise en abyme dello stesso dispositivo mediale di cui il film fa parte, il duce si rivela l’ulteriore maschera di un potere che vuole l’italiano medio omologato e ignorante, pronto a cedere la propria sovranità a un qualsiasi imbonitore telegenico.

Tale rappresentazione farsesca, tuttavia, riduce il fascismo a una baracconata a-storica, così che la maschera comica del duce si rivela quella di una nemesi, tornata per punire un popolo incolto, colpevolmente desideroso di essere guidato da un uomo forte. Gli autori sposano con compiacimento questo punto di vista che è anche quello del dittatore, il quale, inoltre, risulta costruito sugli stereotipi del seduttore e dell’ardito, esattamente come voleva l’agiografia del Ventennio. Di conseguenza ogni connotazione politica e ideologica del discorso fascista si perde nella retorica di una comicità soft che cancella gli aspetti più violenti dell’ideologia littoria, preferendo concentrare i propri strali su ciò che viene fatto passare per l’eterno desiderio di fascismo della nazione.

Il film, in definitiva, pur di rimanere legato ai canoni della commedia, invece che porsi in una dialettica critica con ciò che mette in scena, finisce per assecondarne la visione semplicistica della società italiana. Ogni rappresentazione problematica della diversità etnica, di genere, sessuale e persino sottoculturale, è annullata in nome di un’omologazione sociale fatta passare come tratto imprescindibile dell’identità nazionale. Gli italiani reali risultano pericolosi nella loro diffusa stupidità; i protagonisti con cui il pubblico medio dovrebbe identificarsi, Canaletti e Francesca, il suo love interest, vengono appiattiti ai vuoti stereotipi del giovane inetto di buon cuore e della maggiorata superficiale. I gruppi neofascisti appaiono come innocui cialtroni, la cui violenza viene rimossa, in un evidente tentativo da parte degli autori di non esprimere un giudizio netto nei confronti di chi, al giorno d’oggi, rivendica apertamente la tradizione fascista; le coppie omosessuali sono introdotte nella rappresentazione con tanto di scena che ne ricorda la recente regolamentazione delle unioni – la quale, sancendone la legalità, le riconduce nell’alveo dell’omologazione alla norma identitaria italiana; i figli di immigrati di seconda generazione hanno perduto ogni specificità culturale e linguistica e solo per questo possono essere integrabili.

Persino l’episodio dell’anziana signora ebrea che riconosce la reale natura del dittatore, risulta una forzatura retorica e fuori contesto, a causa della resa macchiettistica del personaggio. Infine l’unica satira realmente pungente è riservata alla televisione berlusconiana, eterna ossessione della cultura italiana degli ultimi vent’anni: essa viene presentata quale artefice principale dell’omologazione culturale imperante, riecheggiando la lettura che a suo tempo Pasolini diede del potere televisivo, quale strumento privilegiato del controllo neofascista derivato dal consumismo di matrice capitalista.

Appare chiaro, dunque, come Sono tornato non riesca a definire una modalità di genere, capace di rinnovare i vieti canoni della rappresentazione comica delle società e identità italiane. Al contrario conferma la relativa impossibilità di avere una commedia nazionale che sia abbastanza matura da opporsi a quegli elementi culturali, quali la venerazione per la norma e la simpatia per i potenti, che alla fine fanno parte di un modo di pensare e sentire, di quelle abitudini e oscure passioni, le quali, come sottolineò Eco (1997), furono la base da cui nacquero l’ideologia e il regime fascista e da cui l’Italia non è mai riuscita a liberarsi.

Riferimenti bibliografici
G. Canova, L’occhio che ride. Commedia e anti-commedia nel cinema italiano contemporaneo, Editoriale Modo, Milano 1999.
M. Di Gesù, Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana, Carocci, Roma 2013.
U. Eco, Il Fascismo eterno, in Id., Cinque scritti morali, RCS Libri, Milano 1997, pp. 25-48.
F. Jost, Realtà/Finzione. L’impero del falso, Il Castoro, Milano 2003.
P.P. Pasolini, I ragazzi sono conformisti due volte, in Id., Lettere luterane, Garzanti, Milano 2009, pp. 65-68.

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