Ancora mi sorprendo a volte a immaginare d’incontrarlo sul sentiero dei miei desideri.
E lo vedo, e mi vedo…
Elena Cerkvenič
La malattia non può essere soltanto una diagnosi. Lo chiariva Franco Basaglia nel suo scritto Che cos’è la psichiatria? (2024) quando, condannando le diagnosi psichiatriche corrispondenti ad uno sterile etichettamento, ad un mero valore categoriale, descriveva la condizione del malato mentale negli anni settanta del secolo scorso: il malato, vissuto nella sua incomprensibile mostruosità sociobiologica, era assolutamente inesistente come soggetto. A cent’anni dalla nascita dello psichiatra veneziano, è necessario analizzare ulteriormente l’enorme meccanismo narrativo che mise in moto: lo scopo era quello di restituire al malato mentale una sana visibilità che lo sottraesse dalla violenza istituzionalizzata e lo ricostituisse come individuo libero e responsabile di sé stesso.
Il diario scritto da Elena Cerkvenič, triestina di origini slovene, Sono schizofrenica e amo la mia follia (2024), pubblicato da Meltemi all’interno della collana 180 – Archivio critico della salute mentale, è difatti imbevuto della posizione rivoluzionaria e trainante che la città di Trieste ebbe ai tempi di Basaglia. La narrazione macroscopica, collettiva e transmediale che Basaglia generò mediante la mobilitazione di tutti i media del tempo – lo racconta dettagliatamente Marina Guglielmi nel suo Raccontare il manicomio. La macchina narrativa di Basaglia fra parole e immagini (2018) – si mantiene tutt’oggi in vita, alimentata da chi, come Cerkvenič, lotta per l’emancipazione dalla condizione stigmatizzante, e talvolta auto-stigmatizzante, del malato mentale. Per l’autrice condividere una scrittura così personale risponde all’urgenza di raccontare l’intimo disagio vissuto dalle persone affette da disturbi psichici, provando a stimolare un profondo scambio culturale tra chi vive la condizione di malattia e chi la apprende attraverso le diverse narrazioni che di essa si fanno.
Elena è un’insegnante di tedesco che conduce una normale vita con suo marito Vittorio quando, trovandosi a Monaco per un corso di perfezionamento, dopo un improvviso malessere avuto durante una lezione, è immediatamente trasportata, quasi “deportata”, nell’ospedale psichiatrico di Haar nel quale la sua sentenza diagnostica viene duramente decretata: «Sentivo il peso insopportabile di questa definizione: ero una schizofrenica, tutto qua. Niente più di questa parola, che tutto condensa. […] Niente aveva più significato per me: io ero solo la malattia e avevo solo lei» (Cerkvenič 2024, p. 105). L’insorgere della schizofrenia sconvolge e sopraffà Elena, e anche il lettore che ne legge il manifestarsi, per la sua violenza, la sua non provenienza e la sua mancanza d’origine.
A partire da questo evento, Cerkvenič tesse meticolosamente un’autoanalisi del suo percorso di vita, prediligendo una forma di scrittura diaristica. L’annotazione giornaliera di osservazioni e ricordi, contraddistinti da un andamento spontaneo e sincero del pensiero, trasuda sia un immenso valore testimoniale, un indirizzarsi all’altro, che un’impellenza autoriflessiva, un destinare primariamente a sé la propria scrittura: «Questa settimana il mio scrivere è come un fiume. Non riesco a fermarlo, e ne sono contenta. Sento il bisogno di raccontare, raccontare e raccontarmi, e riesco a farlo. Ne sono felice» (ivi, p. 61).
Scrivere di sé, seguendo le ampie riflessioni del filosofo e pedagogista Duccio Demetrio (2017), comporta infatti una moltiplicazione degli spazi e dei tempi vissuti: la scrittura autobiografica estende le nostre vicissitudini al di fuori del proprio, trasformandole in “oggetti esterni” pronti ad essere disinfettati e rigenerati. Nel diario di Elena, la scrittura diviene perciò «uno strumento di mediazione e sutura per ricucire una fisionomia di sé dispersa» (ivi, p. 225) che, mediante l’evocazione di oggetti, persone o in generale entità non presenti – i pranzi e le cene della nonna Pavlina, l’assenza del padre, il primo incontro col marito Vittorio, i rapporti negativi con i medici psichiatri, ma soprattutto quelli positivi – trasforma le memorie in quegli “oggetti esterni” con i quali ci si può, anche se a fatica, riconciliare. Le rappresentazioni mentali, e i conseguenti momenti narrativi a carattere parresiastico, si fondono costantemente con la materialità del quotidiano, con la forte attrazione che gli oggetti e gli ambienti esercitano su di Elena: cambiare l’acqua alle rose, preparare il caffè, pulire la propria casa sono doni offerti dalla vita e da lei accettati come sacri rituali da portare a compimento.
Nell’incessante movimento da una stanza all’altra della propria casa, costruisce «una filosofia delle piccole cose, di gesti calibrati e consapevoli, che dà corpo e allarga e fa profondo lo spazio e il tempo» (Cerkvenič 2024, p. 25), permettendole di liberarsi dal male. Una vera e propria fenomenologia dell’abitare dominata dal garbo, dalla lentezza, dall’osservazione: una topo-analisi degli spazi dell’intimità, in una casa che non è simile a un museo, come l’autrice ci tiene a sottolineare, ma a uno spazio di libera espressione. Una casa-nido, una casa-libertà, una casa-memoria in cui sono possibili riemersioni fulminee del pensiero, tra nostalgie, rimpianti, sensi di colpa, ma anche speranze e progetti per il futuro.
Il lavoro compiuto da Cerkvenič rientra nello spirito delle Medical Humanities che, nella prospettiva di una sinergia della medicina con le scienze sociali, la filosofia e le arti, considerano necessario sia per il percorso formativo degli operatori sanitari che per quello di cura dei pazienti, la realizzazione di una cornice operativa sostenuta da un orientamento narrativo-autobiografico. Rita Charon, medico e studiosa di letteratura, è considerata la pioniera di questa azione curativa definita medicina narrativa (2017). Controbilanciando la disumanizzazione della medicina e approcci sempre più finalizzati ad offrire solamente risposte diagnostiche (Evidence-Based Medicine), Charon propone di mettere al centro della pratica medica la relazione di cura, con l’obiettivo di onorare e riconoscere le storie di malattia dei pazienti. Un approccio non disease-centered, ma patient-centered, in cui il paziente non è più solo la percentuale di una statistica o il rappresentante di una categoria nosografica, ma un individuo con determinate esigenze psico-emotive e relazionali oltre che biologiche e funzionali. Sia chiaro che l’obiettivo della Narrative-Based Medicine non è in nessuno modo quello di opporsi alla Evidence-Based Medicine, più che altro quello dell’integrazione delle due prospettive: l’approccio umanistico-narratologico può senz’altro aumentare le potenzialità curative della biomedicina.
Per esempio, la figura del peer support, più volte chiamata in causa da Elena, rientra proprio nella cornice operativa della medicina narrativa: il supporto tra pari, offerto da soggetti che condividono un disturbo psichico, promuove la crescita personale e sociale della persona in un clima di fiducia e cooperazione. È spesso insieme ai suoi “pari” che, oltre ad organizzare diversi eventi, Elena partecipa a gruppi di condivisione, accrescendo così la propria passione per le discipline letterarie, filosofiche e artistiche. Sono specialmente il cinema e la filosofia ad occupare un posto fondamentale nella pratica di scrittura terapeutica messa in atto da Cerkvenič, innescando un potenziamento della sue facoltà immaginative: far accadere le immagini, renderle visibili ed esporle, generando un’azione simbolica e immaginaria che contribuisce a ricostruire le prospettive comuni sgretolate dall’incombere della malattia.
In un passaggio, l’autrice ricorda il corso universitario del professore Alberto Farassino, dedicato a L’immagine-movimento di Gilles Deleuze e l’analisi frame by frame de La corazzata Potëmkin (1925) di Sergej Ėjzenštejn: «Era come se da lui ci venisse offerta una terapia della libertà che utilizzava la forma artistica del cinema, terapia fatta non da farmaci, né da colloqui psicoterapeutici, ma da bel cinema. […] Ci sentivamo liberi da qualsiasi etichetta che ci facesse ricordare il nostro stato di salute» (Cerkvenič 2024, p. 51). In questo modo, riflette indirettamente sulle pratiche di filmterapia come strumento di introspezione e presa di coscienza (Sabatino 2022): il film diviene un serbatorio di trame con cui identificarsi, in grado di mobilitare l’immaginazione, predisponendo il soggetto, dopo la visione, a rispondere e aderire con determinazione e tenacia alla realtà che lo circonda.
La continua stimolazione terapeutica della funzione immaginativa esplode nelle pagine finali del diario in cui Elena immagina di incontrare Franco Basaglia ed esprimergli la sua immensa gratitudine: «Così, Franco Basaglia è venuto da me. L’ho visto e mi sono vista. Io seduta sul mio letto del reparto, vestita con dei jeans e una t-shirt blu. Avevo dei bellissimi capelli biondi. Franco Basaglia mi saluta e mi sorride» (ivi, p. 117). La citazione posta in esergo si riferisce proprio alla presenza quasi fantasmatica dello psichiatra che popola continuamente le fantasie dell’autrice. Cerkvenič, infatti, perpetua instancabilmente la rivoluzionaria narrazione che Basaglia avviò anni addietro, ribellandosi tenacemente a chi osa parlare di “metodi basagliani superati”:
Mi sento profondamente indignata rispetto a ciò che sta accadendo nell'ambito delle politiche della salute mentale della nostra città […]. Franco Basaglia ha lottato per assicurarci la libertà, dei trattamenti umani, dei trattamenti di cura all'interno della vita cittadina, fuori dalle mura manicomiali. Noi non vogliamo rinunciarci. Questa è la psichiatria basagliana […] E non posso che dire "Grazie, grazie, grazie, Basaglia!" (ivi, pp. 120-121).
Riferimenti bibliografici
R. Charon, Medicina narrativa. Onorare le storie dei pazienti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019.
D. Demetrio, La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Mimesis, Milano 2017.
A. C. Sabatino, Audiovisual Means to Therapeutic Ends. The Cinematic Dispositif within Medical Humanities, in “Cinéma & Cie”, n. 39, 2022.
Elena Cerkvenič, Sono schizofrenica e amo la mia follia, Meltemi, Milano 2024.