In ogni sistema di scrittura ideogrammatico, basato su segni non riferiti all’aspetto fonologico del linguaggio ma al pensiero, capita che un singolo termine possa assumere, nel tempo, significati plurimi e allegorici. È il caso di furusato, una parola storicamente traducibile come “il luogo di provenienza” di un individuo, ma che nel corso degli ultimi 150 anni si è caricata di nuove connotazioni, tese a sfumarne il significato “tattile” di partenza, per materializzare un’idea più astratta di “luogo”, meno concreto e tangibile, e più apertamente metaforico ed idilliaco, proprio perché declinato all’insegna della nostalgia verso un elemento percepito come distante nello spazio e nel tempo. In altre parole, ecco che nell’«accezione acquisita nell’ultimo secolo, la città natale diventa furusato solo nel momento in cui si ci separa da essa, cioè quando si trasforma nell’amato luogo della propria infanzia o gioventù, da cui però si è lontani e in cui probabilmente non si farà più ritorno» (Cavaglià 2015).
È a partire da qui, da questo dissidio lancinante tra la volontà di sognare il luogo incontaminato della propria (inesistente) infanzia, e l’oblio in cui è brutalmente sprofondata la realtà in seguito ad un’invasione aliena, che si sviluppa tutto il racconto di Capitan Harlock – L’Arcadia della mia giovinezza: quasi come se il creatore dell’iconico corsaro spaziale, Leiji Matsumoto, e gli autori della Toei dietro la realizzazione di questo film prequel, desiderassero stabilire sin da subito le coordinate (etiche, filosofiche, esistenziali) del leggendario pirata dello spazio, all’insegna tanto dell’impossibilità, da parte dell’eroe, di concepire un ritorno alle proprie origini, quanto della necessità di scardinare le ingiustizie che attraversano, facendola implodere, la realtà.
Perché il furusato – in questo caso rappresentato dalla terra germanica di Heiligenstadt – è da intendere quale una mera immagine sognata, come uno strumento metaforico attraverso cui affermare i principi libertari del protagonista (e delle narrazioni passate, presenti e future di cui è e sarà il vettore) contro un mondo che rifiuta qualsiasi istanza di moralità e di rispetto dei più basici diritti umanitari. Per Harlock e i suoi compagni di rivoluzione/sedizione, conta sì il momento presente, ma soprattutto il bisogno di affermare, oggi come domani, quelle istanze antiautoritarie che permetteranno possibilmente ai cittadini del futuro di arrivare ad individuare nella loro condizione contemporanea la conquista del furusato e di ciò che esso rappresenta, al di là di qualsiasi volo di fantasia o di una fuga nei ricordi del passato. E per farlo, Capitan Harlock – L’Arcadia della mia giovinezza deve prima di tutto dare vita ad una narrazione che sia apertamente mitopoietica: e creare così la mitologia del corsaro spaziale, fino a legarla ai racconti (fumettistici, televisivi, cinematografici) con cui il pirata ha stregato le menti e i cuori di milioni di lettori/spettatori sin dal suo debutto nelle pagine di Matsumoto.
Da qualunque prospettiva lo si osservi, il film, realizzato nel 1982 come prequel dell’iconica serie del ’78 di Toei, è interamente focalizzato sulla costruzione del mito di Harlock, e quindi sulla fondazione tanto dei principi di libertà che guidano le azioni del corsaro, quanto delle crisi socio-politiche che attraversano il suo mondo: e da cui l’eroe ha mutuato lo spettro etico/morale di cui si fa archetipo e vettore assoluto.
Ci troviamo, perciò, in prossimità dell’anno 3000, nel periodo stesso in cui la Terra ha iniziato a conoscere il buio contro cui il capitano continuerà a combattere per tutto il corso della sua esistenza. Gli Illumidas (noti nell’edizione italiana come Umanoidi) hanno invaso il pianeta, e sia gli invasori alieni che i terrestri vedono in Harlock un’anomalia da cui diffidare, da un lato perché rappresenta una temibile minaccia alla preservazione del nuovo status quo, e dall’altro per non esser stato in grado di tutelare i suoi omologhi dalla disfatta planetaria. Ma nel momento stesso in cui l’eroe incontra l’ex ingegnere della Federazione Terrestre, il giapponese Tochirō Oyama – il quale, tra l’altro, gli consegnerà la leggendaria (e simbolica) astronave a cui legherà da quel momento il suo cammino, cioè l’Arcadia – comprende improvvisamente i canoni a cui dovrà votare il suo cammino. Agli occhi di Harlock è ormai giunta l’ora di conseguire il suo destino libertario, e di rispondere finalmente al richiamo del fato: che sin dai tempi in cui il suo omonimo antenato aveva perso la vita durante la Seconda Guerra Mondiale, sembra averlo immesso su un percorso di obliterazione delle ingiustizie a cui è sottoposta la collettività, di cui il pirata, in quanto simbolo deliberatamente oltranzista, ne sintetizza ogni fantasia e istanza di libertà.
Non è un caso che Capitan Harlock – L’Arcadia della mia giovinezza, per poter fondare la mitologia del pirata e delineare un terreno fertile per l’emersione, organica, di tutti i principi filosofici della saga a lui dedicata, leghi qui i processi di formazione identitaria/esistenziale del protagonista al suo incontro con la leggendaria navicella spaziale. Se ci pensiamo, nella scrittura di Matsumoto, nei mondi da lui creati e che sono poi confluiti in quel corpus iconografico e narrativo che lettori e analisti hanno storicamente definito “Leijiverse”, le navi da battaglia – o comunque i veicoli di trasporto o i capolavori ingegneristici – fungono sempre da testamento simbolico dei temi delle narrazioni in cui sono calati, e quindi da vettori del portato filosofico dei racconti e dei singoli personaggi.
In Star Blazers, la “Corazzata Yamato” è l’immagine stessa del conservatorismo nipponico, la finestra da cui affacciarsi per poter recepire le istanze reazionarie e nostalgiche di un popolo che trova la pacificazione nell’immagine di un passato idealizzato, in faccia ai cambiamenti a cui il Giappone è stato forzatamente sottoposto sin dall’inizio dell’Occupazione Americana (1945-1952). E se in Galaxy Express 999 la locomotiva a vapore è il conduttore della sublimazione di quelle fantasie di “vita eterna” verso cui si sta dirigendo parte dell’umanità, l’Arcadia in Harlock è la proiezione stessa dei desideri più reconditi del pirata, e della sua volontà di trovare le emozioni primigenie del furusato in un futuro migliore, che sia adatto ad ospitarne (e poi a cullarne) l’essenza.
Ecco allora che i temi (e lo spessore drammaturgico) del film potrebbero essere individuati nel nome stesso che Leiji Matsumoto ha assegnato all’iconica astronave. Perché quella terra del Peloponneso nota come Arcadia, ha assunto nella storia della letteratura (da Teocrito a Virgilio fino a John Keats) una valenza altamente metaforica, in cui è possibile ravvisare l’idea di un luogo puro, equilibrato, dove uomini e natura vivono in perfetta armonia reciproca e in cui le storture e le divergenze ideologiche della modernità non hanno modo di esistere né di generare i propri effetti distorsivi, proprio perché tale terra si astrae dai fenomeni progressisti della contemporaneità. E cos’è, da questa prospettiva, l’astronave su cui viaggia Harlock, se non un microcosmo idilliaco in cui poter affermare, sotto voce, quei valori reazionari definiti, dalla realtà esterna, come inesorabilmente anacronistici?
Ma il valore del film, e per estensione della saga di cui è antipasto e sintesi tematica, risiede anche nella naturalezza con cui il lungometraggio respinge ogni tentativo di strumentalizzazione. In Italia, ad esempio, Harlock (un po’ come era successo a Tolkien) ha rappresentato a lungo il manifesto di una certa destra radicale: eppure il racconto oblitera qualsiasi fenomeno di politicizzazione delle sue immagini. Perché qui la visione di una terra sognata, unita alla necessità dei protagonisti di fuggire in una realtà diversa da quella a cui l’invasore straniero ha sottoposto il mondo corrente, risponde unicamente agli schemi di pensiero del popolo giapponese, che portano i cittadini del Sol Levante ad individuare in un’idea di stabilità e di conservazione delle proprie radici culturali, la matrice stessa della loro autoctonia e dell’eroismo nazionale: di cui la Corazzata Yamato era il simbolo, mentre l’Arcadia è la semplice incarnazione nostalgica in piena cornice post-bellica.
Ed è in nome di questo portato filosofico/morale che il film costruisce, così radicalmente, il suo spirito mitopoietico: destinato qui a delineare il percorso di un corsaro senza tempo, che trascende con il suo eroismo le ingiustizie collettive, fino a prendere per mano lo spettatore e condurlo all’interno di uno spazio ancestrale. In cui trovare, insieme a lui, la propria armonia interiore. E quella di un brutale e fragile mondo in cui ci ostiniamo, nonostante tutto, a voler vivere.
Riferimenti bibliografici:
M. Cavaglià, Furusato: evoluzione di un mito e declinazioni contemporanee, in “Kervan – International Journal of Afro-Asiatic Studies”, n. 19, 2015.
Capitan Harlock – L’Arcadia della mia giovinezza; Regia: Tomoharu Katsumata; sceneggiatura: Yooichi Onaka; fotografia: Masaki Machida; animatori: Kazuo Komatsubara,Mitsuru Aoyama,Yoshinori Kanada; musiche: Toshiyuki Kimori; interpreti: Makio Inoue, Kei Tomiyama, Reiko Tajima, Yuriko Yamamoto, Eiko Masuyama; produzione: Toei Animation, Tokyu Agency; distribuzione: Yamato Video; origine: Giappone; durata: 130’; anno: 1982.