Qual è il senso della fine (minuscol0) per una serie che lungo cinque stagioni si occupa esattamente del Senso della Fine (maiuscolo)? Six Feet Under, trasmessa da Hbo dal 2001 al 2005, e parte di quella prima nidiata di titoli che ha definito i confini stessi di una serialità americana premium, è in fondo dedicata proprio alle cose ultime, al valore della vita e all’ineluttabilità della morte. E attorno a questo ruota ogni struttura narrativa, ogni scelta visiva, ogni elemento che si ripete attraverso le puntate. Nel pilota, in una fine che è pure l’inizio, o l’inizio della fine, la famiglia Fisher e la relativa attività di pompe funebri sono sconvolte dalla morte improvvisa del patriarca Nathaniel, investito da un autobus: l’intera serie è allora anche la rielaborazione di questo lutto, e la parallela ricerca, per tutti gli altri, di un posto nel mondo.

Episodio dopo episodio, seguiamo le storie dei fratelli Nate, David e Claire, e quelle della madre Ruth, come pervase da un senso di impending doom, di sorte che incombe, in contrasto con i colori chiari e la luce della California. Del resto ogni puntata, in un cold open che così freddo non è mai stato, inizia con la morte di qualcuno, di cui possiamo ripercorrere gli ultimi istanti prima che il cadavere arrivi nella funeral home dei protagonisti: tra infarti, cadute, incidenti d’auto, scontri con armi da fuoco, si sottolinea quanto la fine della vita sia spesso assurda, casuale, sovente insensata; con il procedere delle stagioni, in un gioco aperto con le aspettative dello spettatore, queste aperture si fanno ingannevoli, tra indizi e false piste, o persino macabramente buffe, con il motociclista vestito da Babbo Natale che si scontra con un camion, la signora bigotta che scambia alcune bambole gonfiabili in volo per il giudizio universale e si getta in una strada trafficata, il ragazzo che si butta da un tetto in preda a un trip, la persona presa nella porta dell’ascensore, o ancora quella sulla cui testa cade all’improvviso qualcosa dal cielo.

L’ultima stagione, lanciata con lo slogan “Everything. Everyone. Everywhere. Ends”, rende esplicito il parallelo procedere verso la fine del racconto e della serie, e si prende persino il lusso di far morire uno dei protagonisti nel quartultimo episodio, per dare il tempo agli altri personaggi (e a noi) di seguirne il funerale e la difficile elaborazione del lutto. Infine si arriva davvero all’ultima puntata di Six Feet Under e alla lunghissima scena finale, di circa sette minuti. Dopo aver salutato ciò che resta della sua famiglia, la figlia più piccola, Claire, sale in macchina e, frastornata e commossa, parte verso New York, dove la aspettano un nuovo lavoro e una vita diversa, il distacco del diventare grandi. Vediamo Claire, da sola, alla guida di una Prius blu, che percorre prima le affollate highways di Los Angeles e poi i deserti paesaggi californiani, mentre in sottofondo risuona una lunga versione di “Breathe Me” di SIA.

Ed ecco che, a punteggiare queste immagini, rapidi flash-forward mostrano alcuni momenti delle vite future, un matrimonio, un compleanno, i figli che crescono, i corpi che invecchiano, altri che si aggiungono. Le brevi scene, sfocate e irreali, sono spiragli sul futuro, su ciò che accadrà dopo, ma questa apertura dura soltanto pochi attimi, per poi mostrare una alla volta la scomparsa di tutti i protagonisti, suggellata dagli stessi frame con il nome e le date di nascita e morte che chiudevano i cold open.

L’inizio del viaggio di quella che solo all’ultimo si rivela l’eroina della serie si intreccia allora alla fine del viaggio di ciascuno, ed è Claire, centenaria, a chiudere gli occhi per ultima, mentre da ventenne affronta l’orizzonte. Il finale, dice l’attore Michael C. Hall nell’oral history dedicata da Vulture proprio a questa scena, è stato «un modo di chiudere al tempo stesso sconvolgente e ovvio, e penso sia per questo che è stato così efficace».

La serie scritta da Alan Ball (che dirige anche quest’ultimo episodio) è così una delle poche a rispettare davvero, nel difficile momento della chiusura, i suoi presupposti e le sue promesse, con una coerenza estrema, a più livelli: dal punto di vista narrativo, arrivando all’ultimo secondo di tutte le storie; da quello formale, richiamando atmosfere e topoi costruiti nel tempo; e da quello emotivo, intrecciando la commozione e il dark humour in modo molto stretto, quasi inestricabile. Se il senso della fine sta nel percorso di ciascuno, cui si aggiunge una discreta casualità, il valore del finale di una serie complessa, quando riuscito, sta nel sublimarne insieme ragioni e passioni, nel ritrovare ogni volta in una sola scena il significato profondo di un percorso durato anni. Tutto finisce, certo, ma non senza qualche lacrima.

Six Feet Under. Ideatore: Alan Ball; interpreti: Peter Krause, Michael C. Hall, Frances Conroy, Lauren Ambrose, Freddy Rodríguez, Mathew St. Patrick, Rachel Griffiths; produzione: The Greenblatt, Janollari Studios, Actual Size, Inc., HBO Original Programming; origine: USA; anno: 2001-2005.

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