L’uscita al cinema di Siccità di Paolo Virzì in questi giorni è anche l’occasione per indagare una tendenza della critica italiana degli ultimi anni, almeno di parte della critica, che a volte stronca Virzì, anche con un certo astio o, peggio, con irrisione, prima ancora di vederne i film o aspettandosi altro che quello che onestamente, schiettamente c’è nel testo, e non si capisce perché questo cinema dovrebbe essere altro da quello che è. Si tratta forse di un pregiudizio che coinvolge in qualche modo la tradizione della grande commedia all’italiana di cui l’autore livornese sembra essere l’ultimo erede; la maniera perentoria, fors’anche didascalica, di presentare i personaggi; i risvolti patetici del comico, che si palesano con altrettanta immediatezza e apparente sbrigatività, ecc..

Ma non è questo il cinema di Virzì: nella sua commedia e tanto più in quella italiana che fu di Monicelli, Risi, Germi. Non c’è né didascalicismo né grossolaneria dello sguardo: c’è la gnome piuttosto, un uso gnomico della scrittura cinematografica, essenziale alla messa in scena commedica. Certo, ciò manca di stratificazione psicologica, di spessore introspettivo; ma la commedia, questo tipo di commedia, si basa sull’esatto opposto, sull’esteriorità dei caratteri, sull’estroflessione del personaggio, un immediato, schematico sviluppo della trama, non su introversioni e sfumature romanzesche.

È proprio la mancanza di sfumature e la gnome della situazione, dell’evento cinematografico stilizzato – penso a una scena indimenticabile di Ferie D’Agosto in cui a un tratto irrompe una barca a motore nel quadro, con a bordo Ruggero Mazzalupi (Ennio Fantastichini) e Marcello (uno straordinario Piero Natoli) il quale, con un mangianastri sulla spalla, balla sulle note di Tarzan Boy di Baltimora –, che producono il riso e d’altro canto l’amarezza, la partecipazione – spesso piena di sdegno – per le tribolazioni dei personaggi.

Mosaico di storie – in cui ogni tessera, irregolare, frastagliata, è la commessura per tutte le altre – composto meticolosamente sul letto prosciugato del Tevere; o altrimenti, usando la sponda musicale, concerto grosso, concerto barocco in cui alla coralità, alla sferzata degli archi o di qualche fiato vigoroso, corrisponde il ripiegamento dell’oboe, il largo movimento dello struggimento: comicità e malinconia, leggerezza e amarezza (al limite anche impegno), questo è Siccità. In effetti la scena del concerto barocco è presa dal film, una delle scene più belle, quando all’improvviso arriva la pioggia sui concertisti che suonano in un chiostro scandendo la colonna sonora e il ritmo del film.

Al ritmo di un basso continuo allora, per continuare con l’esempio barocco (barocco romano), senza tempi morti, per più di due ore, si intrecciano, si orchestrano le vicende di personaggi eclatanti, incarnati da attori di livello: scontato alludere alla bravura di Mastandrea, Ragno, Orlando, Tortora, forse un po’ meno citare Diego Ribon, Emanuela Fanelli, Elena Lietti. Sono personaggi contraddittori, tanto umani quanto grotteschi, marionettistici, in balia delle loro cupidigie – spesso una violenza involontaria, becera – così come dei loro desideri frustrati, di una recrudescenza di tristezze, di speranze.

Viene in mente ancora uno dei Virzì più esemplari, quel Ferie d’agosto in cui c’era un ritmo simile e una rassegna così sfaccettata di miserie e virtù umane troppo umane: personaggi ora esecrabili ora inteneriti come da un moto interiore (che non è dato conoscere, visto il registro estroflessivo di questo cinema), un rigurgito di innocenza, di fragilità, richiamato dagli eventi, da qualcosa di drammatico fuori, all’esterno.

In Siccità, oltre alle inferenze, come dire, ataviche della commedia umana, si tratta di qualcosa che riguarda più specificamente i cosiddetti tempi che corrono, o quelli che verranno, che potrebbero venire: l’acqua, la mancanza d’acqua e il risvolto di nuove malattie, portate dalle blatte, un mare di blatte. In questo senso è impressionante l’immagine del Tevere prosciugato, attraversato da Antonio (Silvio Oralndo) alla ricerca della figlia, mentre tra ruderi e cumuli di spazzatura squittiscono i topi e stormi di uccelli cianciano coi vari ciarpami: specie di visione (apocalittica) della terra desolata.

Del resto l’aspetto visionario è presente nel film sotto forma di figure fantasmatiche, o forse miraggi (in questo deserto arido) che satellitano intorno a Loris (Valerio Mastandrea), tant’è che quando è in ospedale moribondo, non si capisce se l’abbraccio che gli dà la sua ex-moglie (una splendida Claudia Pandolfi) sia reale o solo immaginato. Ospedali che si riempiono di questi sonnambuli, narcolettici in preda ai sudori; mancanza e – paradossalmente – spreco d’acqua; crisi economica senza ritorno; orrende sperequazioni. Insomma il riferimento non è solo al Covid ma in generale alle responsabilità degli uomini (che innescano infinite reazioni a catena), alla loro cecità di fronte al processo di estrema degradazione del pianeta.

Se l’imperativo della politica in Don’t Look Up – evidentemente citato: c’è anche il professore veneto esperto d’acqua (Diego Ribon) che si lascia irretire dalla vita televisiva romana, con tanto di belletto, trucco, parrucco e gli ammiccamenti con un’attrice provocante (Monica Bellucci) –, se lì la raccomandazione era di non guardare in cielo per ignorare l’incombere della cometa, qui il sonnambulismo dei drogati di social e di resort, porta a non guardare in basso e non accorgersi delle blatte che vermicano inesorabili sui pavimenti.

Certo, dopo questa vertiginosa rassegna di personaggi e vicende, mostrati al ritmo ininterrotto di un concerto grosso, arriva la pioggia, euforia di un momento: come un manto, una salubrità dell’aria, che non si sa se salverà Loris. Queste malinconiche, efferate, comiche marionette continueranno la loro esistenza, a spasimare e a dimenarsi nell’iperuranio della commedia.

Siccità; regia: Paolo Virzì; sceneggiatura: Paolo Giordano, Paolo Virzì, Francesca Archibugi; interpreti: Monica Bellucci, Silvio Orlando, Sara Serraiocco, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Sara Lazzaro, Diego Ribon; produzione: Wildside, Vision Distribution; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia; anno: 2022; durata: 97’.

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