La guerra civile siriana è una delle più grandi crisi umanitarie della storia, con oltre seicentomila vittime dal 2011 e più di sei milioni di bambini che vivono ancora nelle zone colpite. Il primo lungometraggio di Pietro Malegori, giovane filmmaker conosciuto per i documentari dedicati all’immigrazione e per il cortometraggio Sons of Tibet (2015), tratto dall’omonimo romanzo di Giovanni Terzi, è ispirato alla storia di Tammam Yosseff, un cardiochirurgo siriano. Il film, ambientato in Siria, ma girato interamente in Puglia, è una coproduzione italo-francese che, sfruttando le suggestive gravine calcaree dell’Alta Murgia, trasla le atmosfere delle aree bombardate nelle campagne del Salento.
Shukran è un mythos tragico familiare sullo sfondo della guerra civile, una storia di padri e di figli con lo stesso destino. Taher e Ali Haider sono figli di un generale siriano e sono cresciuti nel clima delle infinite guerre mediorientali: Taher è ora un cardiochirurgo all’Ospedale Pediatrico Internazionale, una delle poche strutture ancora in piedi a Damasco, mentre Ali si è unito ai caschi bianchi (la Difesa Civile Siriana). Sull’altro lato del fronte, il bambino soldato Mohamed al-Rawi viene addestrato al combattimento dal padre, combattente jihadista membro del gruppo Jabhat al-Nuṣra.
Taher osserva la città dal tetto dell’ospedale senza riuscire realmente a vederla: l’orizzonte è fuori fuoco ed è definito più che altro da lontane volute di fumo, e dal rumore degli elicotteri, delle bombe, degli allarmi. Durante una delle operazioni armate a Binnish, Ali ha conosciuto il piccolo Mohamed, malato di cuore e bisognoso di un’operazione urgente, e ha promesso alla madre del bambino che l’avrebbe salvato, con l’aiuto del fratello chirurgo. “Devi uscire a vedere cosa succede nel nostro Paese”, dice Ali a Taher, refrattario ad allontanarsi dalla freddezza della vita dell’ospedale, dove la luce solare è sempre schermata, così come le notizie della guerra. Ali però perde la vita nell’attentato terroristico suicida di cui è autore proprio il padre di Mohamed. Da questo momento, il film si concentra sul viaggio di Taher, costretto a uscire dalla routine ospedaliera e gettato nel dominio della lotta, attraversando la Siria in guerra con un obiettivo: ha infatti ereditato, suo malgrado, il dayn islamico, il debito contratto dal fratello Ali nei confronti del bambino cardiopatico.
La Siria è un vasto e minaccioso borderscape (Brambilla 2015), disseminato di confini mobili, transitori, costantemente rinegoziati al prezzo della vita. “Oltre questo punto non possiamo proteggerla”, intimano gli ufficiali dell’esercito regolare a Taher mentre questi si lascia alle spalle l’ultimo checkpoint di Damasco: fuori dalla capitale c’è solo deserto, dove ogni altura cela un pericolo e ogni casa in lontananza può essere un rifugio o una minaccia. Lungo il viaggio in jeep, la fotografia di Tommaso Fiorilli inonda di luce il paesaggio distrutto dalla guerra, per creare contrasto con le fredde e desaturate immagini dell’ospedale. Negli spazi di risulta, uomini di ogni fazione costruiscono precarie nicchie di sopravvivenza, come hanno fatto i loro padri e come faranno i loro figli, in un movimento eterno. “Noi abbiamo iniziato questa guerra, ma un giorno sarà compito dei nostri figli terminarla”, sentiamo dire dai siriani, ma alla guerra non c’è mai fine.
È la terra stessa che ha generato le loro storie, un destino già segnato che non prevede una via d’uscita: “Questa è la terra che Allah mi ha donato, questo è il tempo che mi ha offerto. Se vuoi vivere devi essere disposto a morire”. Se la linea maschile prescrive la continuità della forma tragica, è proprio l’irruzione del femminile a tentare di interrompere il processo autodistruttivo individuando una via di fuga. Fadwa, madre di Mohamed, evade dalla struttura ciclica a cui tutti sembrano condannati e parte per Damasco con Taher, affinché finalmente operi il bambino: “Non ho scelto di chi essere figlia, ma ho scelto di chi essere madre” è la decisione che la donna oppone alla tradizione, al legame con la famiglia e con la terra dov’è nata. È dunque sulla linea femminile che Taher, protagonista di un significativo arco di trasformazione, decide di collocarsi.
Si tratta di una figura complessa cui l’attore Shahab Hosseini offre un contributo fondamentale, operando in profondità attraverso l’impiego di una complessa grammatica gestuale su cui insiste la macchina da presa. Muove le le mani durante un esercizio ginnico, per mantenerne la flessibilità, poi le sciacqua in sala operatoria per ripulirle compulsivamente dal sangue di un’operazione andata male; ancora, le muove sul torace di Mohamed agonizzante, a tracciare le linee dell’incisione operatoria, nel gesto che dovrà convincere i combattenti a lasciarlo partire con il bambino. È con le mani platealmente sollevate davanti al volto che Taher rifiuta l’invito di Ali a raggiungere Binnish, poi le solleva sulla testa sotto il tiro del mitra dei jihadisti, ed è a mani nude che riesce a rianimare il cuore del bambino che non risponde più al defibrillatore.
Questa articolata serie di segni è la manifestazione materiale di una teoria del gesto manuale come sostegno dell’atto immaginativo, ampiamente indagata da Barbara Grespi a partire dalle origini del cinema: «L’idea del palmo come superficie di scorrimento di figure (passate in rassegna dalla memoria, riunite, mescolate)» (Grespi 2019, p. 395) domina il processo di embodiment della relazione del personaggio con il mondo, a un livello epidermico e pre-verbale. Le mani ricompongono il passato di Taher, che ricorda i gesti della sua infanzia, quando consegnò al padre un soldato nemico trovato svenuto sulla spiaggia, e il futuro, restituendo la vita a un altro soldato nemico, con cui, forse, un giorno dovrà confrontarsi: come si vede nel finale, infatti, Mohamed tornerà a combattere e Taher a operare.
Riferimenti bibliografici
C. Brambilla, Il confine come borderscape, in “Intrasformazione: Rivista di Storia delle Idee”, n. 2, 2015.
B. Grespi, Figure del corpo. Gesto e immagine in movimento, Meltemi, Milano 2019.
Shukran. Regia: Pietro Malegori; sceneggiatura: Pietro Malegori, Elia Adami, Alessandro Valenti; fotografia: Tommaso Fiorilli; montaggio: Cecilia Zanuso; musiche: Serena Menarini, Alessandro Branca; interpreti: Shahab Hosseini, Camélia Jordana, Antonio Folletto, Slimane Dazi, Abdelhafid Metalsi, Syrus Shahidi, Hania Amar; produzione: Addictive Ideas, 3 Marys Entertainment, Rosebud Entertainment Pictures; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Italia, Francia; durata: 90’; anno: 2024.