Paolo Fabbri ci ha lasciato pochi giorni fa. Per chi l’ha conosciuto e ha avuto il piacere di ascoltarlo ragionare e raccontare, anche solo una volta, il ricordo è legato alla forza e all’efficacia del suo eloquio, e alle tante epifanie intellettuali che regalava ai più attenti, indicando accostamenti inediti e nuove rotte da seguire con la sua voce acuta e la sua ironia particolare, dimostrando una curiosità saltellante e la passione instancabile per la ricerca.
Per chi è stato suo allievo, Fabbri è stato un maestro generoso di idee e consigli (e di critiche, le più importanti) instancabile nel proporre e progettare. Per alcuni di noi, per me, è stato un modello per molti anni, prima e dopo il dottorato: un maestro e (quasi) un padre da imitare e da seguire devotamente, da temere e con cui confrontarsi – a volte anche duramente -, da abbandonare per poter crescere e, infine, da ritrovare come interlocutore e come amico. Era un privilegio potersi confrontare con Paolo: il tempo passato assieme era sempre fruttuoso. E quando le sue parole diventano scrittura, nei suoi saggi o anche solo come trascrizione, quel privilegio si riaccende. Ultimamente Paolo Fabbri si confrontava (anche) con la serialità televisiva: un modo per lui di continuare ad esplorare le mutazioni delle forme mediali nella prospettiva della semiotica narrativa e discorsiva e della traduzione interculturale (Nicola Dusi).
[…] La prima osservazione è generica: la necessità nel nostro lavoro di una certa specificità dell’analisi testuale, perché i problemi di riconoscimento testuale sono molto importanti nella semiotica. Volevo ricordare anche una osservazione sul feuilleton, o meglio sui sistemi di ripetizione successiva e seriale, da un’idea di Lévi-Strauss che mi è sembrata molto profonda e sulla quale sarebbe bene tornare. Per Lévi-Strauss le combinatorie sono di due tipi: la prima è la combinatoria la cui ricombinazione provoca delle novità significative. Provate a prendere il mito di Don Giovanni, sostituite Don Giovanni con una signora, avrete “donna Giovanna”, e così cambiate tutti i termini della storia e vedrete che effetto fa sperimentalmente un’operazione di questo genere.
Ed ecco la seconda: per Lévi-Strauss «nei miti elaborati la trasformazione produce senso supplementare. Quando non lo produce più, a quel punto avete l’iterazione seriale» (Lévi-Strauss 2010). L’iterazione seriale è per Lévi-Strauss quello che definisce dei “miti a cassettoni”: uno tira un cassetto e trova sempre un’altra cosa, poi c’è un altro cassetto, poi c’è un altro cassetto. “Miti a cassettoni” sarebbero in qualche misura quelle variazioni che non apportano realmente trasformazioni di senso. Lo prendo come un piccolo mito personale che mi sembra molto interessante, perché allora potremmo avere anche una tipologia che distingue quando l’iterazione seriale provoca delle variazioni di significazione, un riapprofondimento di senso, e quando invece si limita semplicemente a una iterazione. […]
Parliamo di Shtisel, un serial di 24 puntate in due stagioni su una famiglia haredim (la prima puntata esce nel luglio del 2013 su un canale israeliano, e la serie viene distribuita da Netflix dal 2018). Gli haredim sono degli ebrei ortodossi di Gerusalemme. La serie si svolge perlopiù in una scuola rabbinica ed è molto interessante (anche per gli ebrei non ortodossi) sia perché riproduce figure e rituali, sia perché segue la storia di un ebreo ultraortodosso che ha una vocazione da disegnatore e d’artista, con il problema di cosa la sua passione provochi in una cultura che è fondamentalmente iconofobica. Una questione da porre quindi sul piano dei conflitti di valore e sulla differenza tra le norme e i vincoli. Se una norma è un vincolo, un vincolo gestito da un valore è una norma, ma ci possono essere vincoli non gestiti da un valore, o norme che perdono valore e restano però come i vincoli.
C’è poi una cosa molto curiosa, una specie di contrapposizione fortissima tra la nostra ideologia che l’altro è il limite alla nostra libertà, con la cultura del “siamo tutti liberi e identici e ci estendiamo come vogliamo”, e invece la cultura ebraica ultra-tradizionale per la quale prima si eseguono la norma e il vincolo e poi, all’interno dell’esecuzione, si cerca la propria libertà. Come a dire che qui la libertà viene dopo: prima si comincia con l’obbedire, poi si diventa liberi. Il nostro protagonista è preso in questa contraddizione, come ci insegna la sua storia. Una storia che per noi è profondamente esotica, non solo perché ci sono tipi strani di cappelli e di modi di vestirsi maschili e femminili, dei dress code impressionanti: i maschi indossano ad esempio indumenti rituali (come lo “scialle di preghiera”), portano lo “shtreimel” che è un cappello di pelliccia, cappotti e caffettani neri (o “bekishe”), e tutti compiono gesti rituali ad esempio ogni volta che si entra in una casa si tocca la soglia, e così via.
Quello che mi interessa, oltre al conflitto dei valori, sono alcuni elementi. Il primo problema è quello di visualizzare le parabole, in un modo che vedo così sistematico per la prima volta. Ecco un esempio rapidissimo: c’è una signora molto orgogliosa, e le raccontano una parabola, quella di un signore che va in farmacia e chiede dei chiodi, fa la figura dell’idiota davanti a tutti, e se ne va. Questo serve a reprimere l’orgoglio. Nella serie la scena viene rappresentata: infatti poi la signora entra in una farmacia piena di gente, ordina un etto di chiodi, si ridicolizza, esce: finito con l’orgoglio. Mi è sembrata molto divertente questa visualizzazione delle parabole che la serie fa, come dicevo, sistematicamente.
Il secondo è un problema di mediologia. Ogni sistema visivo implica in qualche misura un’interrogazione su di sé. Nel caso della serie Shtisel il fatto che l’eroe della storia sia qualcuno che non riesce a sposarsi, non riesce a integrarsi, eccetera, perché vuole dipingere in una cultura dove non si dipinge, si accompagna a un racconto dove si scrive, in cui il problema è evidentemente la scrittura. Infatti in questa comunità, per strada non ci sono immagini, tutto è scritto: loro si fanno i propri manifesti. E non si guarda la televisione, perché è uno scandalo. Tanto è vero che quando mettono in un ospizio la nonna del protagonista, e lì capita che ci sia un televisore, lei si innamora delle serie televisive americane, ma i figli arrivano e strappano il cavo per impedirglielo.
Un terzo problema è quello dei sogni e degli spettri. In una cultura dove l’immagine è completamente repressa tornano gli spettri: come a dire che le persone, e i loro bisogni, vengono visualizzati. Gli spettri appaiono nella serie semplicemente: quando un personaggio (il padre del pittore) cade e si rompe una gamba e resta steso, avrebbe bisogno di qualcuno che lo aiuta; vicino a lui appare la moglie, lui le chiede “fammi il piacere di andarmi a prendere una cosa”, e lei risponde: “Non posso, sono morta”. Mi sembra una idea profonda quella che in realtà in una cultura anti-iconica o aniconica i sogni e gli spettri vengono visualizzati. Profondissima, anche se in effetti esiste la pittura di Chagall, quindi non è del tutto vero l’anti-iconismo.
L’ultimo punto è quello della fondazione nazional-populista. È molto divertente perché gli haredim, che si considerano gli ebrei “veri”, trattano gli altri ebrei come “sionisti”, e li detestano. Hanno insomma due tipi di relazioni: la prima relazione è con i “loro” (i goim), che siamo noi (cioè i non ebrei), considerati del tutto irrilevanti. Poi ci sono invece i “sionisti”: gli ultraortodossi in Shtisel parlano esplicitamente dei sionisti, come dei “voi”: sono cioè quelli con cui “noi” siamo obbligati a confrontarci costantemente. Ma questo “noi” è sempre ambivalente, perché ad esempio quando c’è la Festa dell’Indipendenza (dello stato ebraico), accade una cosa molto divertente. In cielo girano degli aerei con dei numeri acrobatici, i bambini della scuola rabbinica vorrebbero vederli a tutti i costi, e a quel punto il più sovversivo dei tradizionalissimi ebrei ortodossi permette loro di guardare dalla finestra.
Ecco allora che la parabola della relazione con l’altro mi sembra molto ben rappresentata, distinguendo all’interno dell’alterità due punti a cui i semiologi sono affezionati, due modi della struttura enunciativa profonda (enunciativa non nel senso pronominale, naturalmente). Da una parte l’esistenza di “loro” (i goim), che sono del tutto irrilevanti e quindi si vive come se non esistessero. Dall’altra l’esistenza problematica di quelli con cui ci si deve continuamente confrontare, il “voi” sionista, che sono veramente dei grandi rompiscatole e coi quali bisogna purtroppo avere a che fare. E d’altra parte il “noi” è sempre ambivalente, anche quando è legato ad una regola fondamentale: l’ambivalenza del “noi” rispetto alla reversibilità del “noi” e del “voi” è veramente straordinaria e una serie come Shtisel lo racconta molto bene.
Riferimenti bibliografici
C. Lévi-Strauss, Le origini delle buone maniere a tavola. Miti, usanze, comportamenti: le loro strutture comuni fra i popoli, Il Saggiatore, Milano 2010.
*Il testo pubblicato è estratto da: Shtisel: forma di vita ebraica ortodossa e traduzione culturale di Paolo Fabbri. Trascrizione dell’intervento tenuto presso l’Università di Modena e Reggio Emilia alla Giornata di Studi Semiotica e sociosemiotica della serialità postmediale (3 maggio 2019, Reggio Emilia), organizzato da UNIMORE (DCE), con la collaborazione del CiSS Centro Internazionale di Scienze Semiotiche Umberto Eco (Università di Urbino Carlo Bo). L’intervento completo è in corso di pubblicazione in un numero monografico di Mediascape Journal dedicato all’analisi delle serie tv, curato da Nicola Dusi, Ruggero Eugeni e Giorgio Grignaffini.
Shtisel. Ideatore e regia: Ori Elon e Yehonatan Indursky; interpreti: Dov Glickman, Michael Aloni, Neta Riskin, Shira Haas, Sasson Gabai, Hadas Yaron, Eliana Shechter, Zohar Strauss, Ayelet Zurer; origine: Israele; anno: 2018-in corso.