Sfogliare il proprio album di fotografie di famiglia è un gesto intimo e profondamente identitario, si ricordano luoghi e persone, se ne riconoscono i lineamenti nei propri. Si percorre un «racconto di Sé affidato alle immagini» finchè le fotografie diventano «cifra esemplare di uno schema di riconoscimento: l’immagine non è solo un’impronta, ma l’ordine “leggibile” cui ci consegniamo; è una forma di costruzione dell’identità come adeguatezza a una norma» (Farinotti 2012, p. 449).
Pensiamo al racconto autobiografico dello scrittore Paul Auster, L’invenzione della solitudine, che nasce proprio dalla scoperta delle fotografie di famiglia, trovate nella casa del padre dopo la sua morte:
La scoperta di quelle foto fu importante per me, in quanto esse sembravano ribadire la presenza fisica di mio padre nel mondo, illudendomi che fosse ancora presente. Il fatto che molte non le avessi mai viste mi diede la strana impressione di incontrarlo per la prima volta, come se una parte di lui incominciasse a esistere solo allora. Avevo perduto mio padre; ma nello stesso tempo lo avevo trovato. […] Gran parte delle foto non mi dissero nulla di nuovo ma mi aiutarono a colmare lacune, a confermare impressioni, a fornire prove dove non ne esistevano (Auster 1997).
Auster scopre la storia di vita del padre, a lungo assente, ricostruendo eventi felici e traumatici, ricordando i momenti passati insieme e riconoscendo una parte di sè nell’uomo ritratto in viaggio di nozze, oppure sul campo da tennis, circondato da ragazze, o da bambino in una famiglia rigida. Componendo un album di foto di famiglia, stabilisce quindi la sua filiazione.
Anche Silvia Mazzucchelli stabilisce un rapporto di filiazione attraverso le fotografie. Trova le sue antenate, nonne, madri, sorelle (in base allo scarto di tempo che le separa) nelle fotografe che hanno attraversato il Novecento, cercando in ognuna delle parti di sè in cui riconoscersi, «per ricostruire una personalissima genealogia, non frutto delle leggi del sangue, ma di quelle della somiglianza, dell’affinità, della simpatia, della prossimità» (Mazzucchelli 2024, p. 8). Di ciascuna delle venti fotografe scelte da Mazzucchelli, la biografia accompagna la fotografia, l’analisi tecnica trova corrispondenza in amori, emancipazioni, successi e insuccessi.
Le antenate irrequiete, Grete Stern, Margaret Bourke-White, Lee Miller, Eve Arnold, si appropriano del medium: non più modelle in posa ma autrici, si fotografano arrampicate in cima a un grattacielo (Bourke-White) o nella vasca da bagno di Hitler (Miller). Le nonne ribelli dal profondo impegno politico, Ruth Orkin, Lisetta Carmi, Sabine Weiss, Carla Cerati, Letizia Battaglia, Chiara Samugheo, Grace Robertson, scoprono il mondo fuori dalle mura domestiche; diventano fotoreporter, legano la loro professione agli omicidi di mafia (Battaglia), al teatro sperimentale e ai manicomi (Cerati), al travestitismo (Carmi) mal tollerato. Le madri trasgressive, Sarah Moon, Libuše Jarcovjáková, Nan Goldin, Jitka Hanzlová, documentano gli eccessi del benessere capitalistico americano (Goldin) e l’inverno dopo la Primavera di Praga (Jarcovjáková). Le sorelle riflessive, Luisa Lambri, Jessica Backhaus, Viviane Sassen, Rinko Kawauchi, Moira Ricci, terminate le grandi ideologie, ricercano spazi intimi contemporanei, accoglienti (Kawauchi) o pieni di insidie (Lambri), o sentono il richiamo della madre e della madre terra (Ricci).
Ognuna delle fotografe si confronta con il femminile dentro e fuori di sè. Nella serie Killing Summer (1984) Libuše Jarcovjákovà raddoppia la direzione del suo sguardo fotografico entrando nell’inquadratura con il suo braccio, abbassando gli slip dell’amica distesa su un letto con un bicchiere accanto: il sesso e l’alcol sono tra i pochi mezzi della gente di Praga per evadere dalla repressione. Chiara Samugheo documenta i riti femminili della religiosità popolare del Sud Italia, le “invasate” danzanti di un mondo magico che si consuma, e in continuità con i corpi che si spingono oltre l’umano sceglie poi di dedicarsi alle dive del cinema, scatti posati dai colori saturi dove spiana le rughe ed elimina le imperfezioni. Dalle foto di Lisetta Carmi emergono l’affetto e l’amicizia che la lega ai “travestiti” dagli occhi bistrati ammiccanti e la «biancheria intima esibita come segno di conquista» (ivi, p. 63), ed è proprio questo rapporto a liberare la fotografa dai problemi di identificazione di genere e a condurla verso l’accettazione del sè: «Una persona che vive senza un ruolo» (ibidem).
La scelta di Mazzucchelli di selezionare solo donne «non è ideologica» (ivi, p. 9), quanto di affinità elettive, non già nel tentativo di identificare uno sguardo peculiarmente femminile, ma al contrario di articolare molti sguardi peculiari legati organicamente al dato biografico: «Un album di fotografe, non di fotografie» (ibidem).
Riferimenti bibliografici
P. Auster, L’invenzione della solitudine, Einaudi, Torino 1997.
L. Farinotti, Fuori di sè. Identità e immagine, in “Comunicazioni sociali”, n. 3, Vita e Pensiero, Milano 2012.
Silvia Mazzucchelli, Sguardi penetranti e obliqui. Venti fotografe per un album di famiglia del Novecento, Mimesis, Milano 2024.