La mitologia dell’uomo protesico trova una nuova realizzazione nel panorama contemporaneo grazie alle attuali tecnologie digitali. Il libro Sguardi che bruciano (Meltemi, 2023) ci invita pertanto a riportare l’attenzione sulla relazione dell’uomo con il proprio mondo esteriore e interiore e, in particolare, con le emozioni. Le nuove tecnologie ci permettono da un lato di ampliare la sfera sensoriale – di vedere più lontano o più vicino, come nel caso del cannocchiale e del microscopio – ma dall’altro producono un contraccolpo epitesico sullo stesso utente, plasmando la sua maniera di stare al mondo – basti pensare a tal riguardo all’impatto che l’invenzione della ferrovia o della fotografia hanno avuto rispetto all’autocomprensione dell’uomo e del suo mondo. Mentre la cultura di massa tende a polarizzarsi tra tecnofili e tecnofobi, come sottolinea Eco nel suo saggio Gli apocalittici e gli integrati (1964), Federica Cavaletti adotta un approccio neutrale e analitico per esplorare il tema della vergogna nel mondo virtuale. Non solo possiamo riconoscere in questo lavoro una grande imparzialità, ma anche un continuo tentativo di scardinare le impressioni comuni rispetto a questo universo. Sentiamo infatti dire spesso che non c’è più vergogna, che i social network hanno vetrinizzato – per usare un’espressione di Georg Simmel – gli individui: ma siamo davvero sicuri che sia così? L’autrice parte proprio da questa domanda per ricontestualizzare il tema della vergogna nell’era del digitale, decostruendone prima pregiudizi e stereotipi ed evidenziandone poi rischi e potenzialità.
Sartre è il filosofo protagonista del primo capitolo, con il celebre passaggio dell’Essere e il nulla in cui egli si finge a sbirciare nel buco di una serratura. La porta nasconde il corpo del curioso scrutatore, egli crede di non essere visibile e perciò non sente su di sé lo sguardo di un potenziale altro. È però sufficiente il rumore dei passi o un vociare nelle vicinanze per ricordargli che egli può essere scoperto, può essere visto da qualcuno e quindi essere reso oggetto di una percezione. Ecco che la vergogna fa capolino: «La vergogna pura non è il sentimento di essere questo o quell’oggetto criticabile; ma in generale, di essere un oggetto, cioè di riconoscermi in quell’essere degradato, dipendente e cristallizzato che sono io per altri» (Sartre 2014, p. 344). Il filosofo francese sottolinea così la conditio sine qua non della vergogna, e cioè il divenire oggetto in quanto guardato. Lo sguardo bruciante, carico di giudizio, di cui Cavaletti ci parla, è proprio quello che determina la vergogna nella sua variante scopofobica.
Passando dalla vergogna sartriana alle tecnologie digitali, l’autrice si serve della teoria dell’agency di Gell per coinvolgere nella dialettica guardante-guardato semplici oggetti prima, e in seguito i dispositivi tecnologici. Non è necessario uno sguardo umano per sentirsi oggetto del giudizio altrui, possono essere sufficienti degli oggetti a farci sentire guardati: sono chiamati dall’autrice “oggetti occhiuti”. Essi assumono «l’agency del soggetto che ha il potere di stabilire uno standard, un canone di idoneità e accettabilità, e di decretare di conseguenza chi e cosa debba essere oggetto di disapprovazione» (Cavaletti 2023, p. 123). Da questa prospettiva un paio di pantaloni, che a distanza di una stagione non entrano più, possono essere considerati degli oggetti occhiuti. Nell’essere oggetto di sguardo, sia esso da parte di oggetti o di altri esseri umani, la percezione soggettiva del corpo passa dall’essere implicita, nella misura in cui essa è messa tra parentesi, a esplicita, e cioè tematizzata. In questo passaggio si verifica una messa a fuoco del corpo; esso si fa oggetto delle nostre rappresentazioni, è tematizzato in quanto viene messo sotto i riflettori tramite un atto volontario. A monte di questo slittamento da una percezione del corpo a un’altra sta l’esperienza della vergogna “scopofobica”, l’esperienza dello sguardo bruciante dell’altro.
I social network e il Metaverso ci appaiono quindi come dei potenziali moltiplicatori di sguardi, dei “vetrinizzatori seriali”. Allo stesso tempo, però, spesso dimentichiamo che in ciascun mondo virtuale si apre uno spazio di gioco per il singolo utente rispetto alle modalità di rappresentazione del proprio corpo. Alcune piattaforme digitali, si pensi a Second Life e Roblox, richiedono che ciascun utente crei la propria rappresentazione corporea digitale. Cavaletti individua due maniere tramite le quali ciascun agente digitale può rappresentare il proprio sé nel mondo virtuale. Le maniere di presentazione sono lasciate al singolo – sempre nella limitazione materiale delle possibilità fornite per la personalizzazione – il quale può decidere se fare dell’immagine del sé digitale (l’avatar) qualcosa che assomiglia al sé reale, oppure qualcosa di diametralmente opposto. Nel primo caso si può parlare di avatar come armatura, nel secondo di avatar come scudo. L’avatar-armatura permette di rinforzare la propria immagine, incarnando il sé nella sua dimensione ideale o dovuta: questo può portare degli effetti positivi nella misura in cui permette di identificarsi con ciò che si vorrebbe essere e iniziare ad agire il sé ideale. L’avatar-scudo permette invece di creare una nuova identità e sperimentare, tramite lo sguardo degli altri, una inedita maniera di essere. In entrambi i casi appena incontrati, si instaura una dinamica simbiotica col proprio corpo digitale e l’utente sperimenta quella che la letteratura chiama body ownership illusion (ivi, p. 151), cioè la sensazione di essere un abitante del corpo digitale.
Dopo aver indagato le forme di rappresentazione del sé nei mondi virtuali, Cavaletti passa ad analizzare i wearables, quegli «strumenti tecnologici di dimensioni e peso normalmente ridotti, che possono essere collocati in corrispondenza di varie parti del corpo, aderendo ad esse come farebbe un vestito o un accessorio» (ivi, p. 213). In essi si nasconde una risorsa ma anche un pericolo: se da un lato ci permettono di misurare i valori fisiologici, ad esempio nel corso di un’attività sportiva, per massimizzarne poi la resa, dall’altro essi impongono normativamente un sé ideale, che viene incarnato dalle statistiche delle app che ci ricordano di compiere un certo numero di passi giornalmente e bruciare un certo numero di calorie. Dei wearables fanno però anche parte quei dispositivi, come i caschi di realtà virtuale, che permettono a persone con vissuti traumatici di sfruttare la forte impressione di realtà per riviverli e lavorare su di essi in due maniere: tramite l’isolamento, e quindi ricreando l’esperienza fonte di trauma in un contesto controllato, oppure l’esposizione, esasperando l’elemento disturbante in quel tipo di vissuto.
L’opera di Federica Cavaletti suscita due ordini di riflessioni su piani distinti: in primo luogo ci invita a ripensare quella che siamo stati abituati a identificare come una dicotomia oppositiva, la coppia reale-virtuale. Piuttosto che essere due elementi opposti, essi sono in profonda continuità: da un lato il nostro corpo reale può essere virtualizzato e dall’altro il corpo virtuale ha delle conseguenze reali sulla concezione del sé. Il corpo virtuale dunque – come sottolineato da Conte in Rape or “rape”? (Conte 2024), in cui si interroga sul senso della violenza nel mondo digitale – è tanto corpo quanto lo è quello reale, e di conseguenza può esercitare degli effetti concreti sulla realtà. In secondo luogo ci ricorda l’importanza di espandere questa riflessione a un pubblico di non specialisti. L’alfabetizzazione digitale è possibile solo a partire da riflessioni profonde ed elementari come quella proposta da Cavaletti, che cercano di comprendere come le emozioni, in questo caso la vergogna, entrino in dialogo con gli orizzonti dischiusi dalle nuove tecnologie. Approfondimenti di questo tipo sono cruciali non solo per comprendere quali siano le dinamiche psicologiche e sociali che emergono nell’era del digitale, ma soprattutto per sviluppare una consapevolezza critica che renda tutte e tutti delle navigatrici e navigatori consapevoli, con maggiore coscienza e responsabilità nel mondo virtuale.
Riferimenti bibliografici
P. Conte, Rape or “rape”? Questioning the boundaries between the physical and the virtual, in “Studi di Estetica”, vol. 2, 2024 (in corso di pubblicazione).
U. Eco, Apocalittici e integrati: comunicazioni di massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964.
J. P. Sartre, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014.
G. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito, Armando Editore, Roma 1995.
Federica Cavaletti, Sguardi che bruciano, Meltemi Editore, Milano 2023.