Sezione femminile, il recente film di Eugenio Melloni, racconta le storie di alcune detenute della sezione femminile di un carcere vicino Bologna. Il lavoro è il frutto di una lunga frequentazione di queste donne, com’è naturale che sia per un’impresa del genere. C’è una difficoltà ulteriore, che riguarda il divieto o il rifiuto a riprendere i luoghi di detenzione e le donne detenute. Bisogna aggiungere che Melloni arriva a firmare questo film forte di una lunga esperienza nel progetto “Memofilm“. Due parole su questo progetto sono necessarie per comprendere la complessità della personalità di Melloni e il suo modo di lavorare.
Memofilm nasce alcuni anni fa dalla collaborazione tra la Cineteca di Bologna, allora diretta da Giuseppe Bertolucci, e i neuropsichiatri in servizio presso l’Ospedale Rizzoli-Sant’Orsola della stessa città. Il progetto si rivolge ai malati di Alzheimer. Com’è noto, non c’è una cura per questa malattia. L’ipotesi da cui parte la sperimentazione che vede collaborare insieme medici, ricercatori e operatori dell’audiovisivo è che sia però possibile elaborare terapie di rallentamento del decorso della malattia. Il problema centrale del morbo di Alzheimer è la progressiva perdita della memoria da parte dei pazienti, fino a dimenticare il modo di espletare le più elementari funzioni vitali. Producendo brevi film, il gruppo ha potuto verificare come i pazienti arrivassero a rallentare in misura considerevole gli effetti della malattia e a recuperare, in alcuni casi, le funzioni vitali di cui avevano perso l’uso.
I memofilm sono film particolari. Non si tratta semplicemente di costruire narrazioni della vita e del vissuto dei pazienti. Questi ultimi sono coinvolti, insieme a parenti e amici, nel processo di ri-costruzione della loro storia. Le storie non sono raccontate secondo moduli narrativi tradizionali: gli elementi più disparati sono chiamati in causa per costruire trame che non rispondono al criterio della buona “configurazione” del mythos, ma che sono spostate sull’effetto catartico del racconto, sul momento della “rifigurazione” dell’esperienza presente dello spettatore. Il paziente è chiamato a partecipare al memofilm in più momenti, sia come attore che come spettatore.
Solo in questo modo l’interazione con le immagini può essere efficace e la creatività immaginativa del film arriva a supportare la progressiva degenerazione delle attività mentali del paziente. Quest’ultimo, per così dire, deve muoversi dinamicamente dentro e fuori lo schermo, riattivando in questo modo circuiti della memoria altrimenti sopiti. Cogliendo la portata politica – oltre che terapeutica, etica ed estetica – del progetto, Bertolucci aveva immaginato addirittura un momento in cui si sarebbero organizzati preventivamente dei memofilm di tutta la popolazione, in modo da poter intervenire tempestivamente all’eventuale insorgere della malattia.
L’ultimo film di Melloni si iscrive perfettamente all’interno di questa linea che definirei di “cinema civile”. Da questo punto di vista i rigidi limiti imposti alla lavorazione di Sezione femminile, per quanto riguarda la visibilità delle detenute e dei loro luoghi di detenzione e di vita, non è percepita come una mancanza del film. Il regista coglie perfettamente come una delle poste in gioco nel cinema documentario oggi non sia tanto quella di saturare la visibilità del reale, quanto quella di attivare processi di riscrittura o rielaborazione dell’esperienza attraverso le immagini e i racconti.
Laddove le immagini sono mancanti per ragioni storiche, culturali, legali o documentarie, il cinema del reale contemporaneo, almeno quello più esposto politicamente, in Italia e nel resto del mondo – da Joshua Oppenheimer a Rithy Panh, da Costanza Quatriglio a Leonardo Di Costanzo – non si è preoccupato tanto di soddisfare un’esigenza di autenticità delle immagini, che sono per definizione ambigue, quanto di riabilitare attraverso le immagini procedure di autenticazione della storia, presente o passata.
Autenticare la realtà attraverso un’immagine significa istruirne nuovi momenti di ricognizione ed eventualmente di riconoscimento. In questo senso il fatto che l’azione sia ricostruita negli spazi abbandonati di un’architettura industriale, che i dialoghi siano riscritti e le diverse parti recitate non costituisce affatto un limite del film: il regista ne è consapevole e tende il più possibile a dichiarare le scelte di ri-collocamento del racconto. Non si tratta di una scelta di ripiego per fare fronte ai divieti delle autorità o di altra natura.
Particolarmente potente è l’inquadratura d’insieme in cui ci viene mostrato lo spazio industriale abbandonato, un capannone presumiamo, in cui si andranno a rimettere in scena gli episodi di vita delle detenute, i loro dialoghi interrotti o separati da muri, i loro pensieri e sentimenti. In questo momento capiamo di non dover collocare la storia o nello spazio reale del carcere o nello spazio di finzione della messa in scena. È piuttosto nello spazio tra queste due dimensioni, che assurge a vero e proprio “spazio-tra” o “inter-spazio”, vale a dire in un luogo di mediazione dei fatti e di negoziazione del loro significato, che dobbiamo muoverci. Un primo esempio di questo lavoro lo ha offerto Cesare non deve morire (2012) dei fratelli Taviani.
Si vede qui l’analogia con quanto avviene nei memofilm: lo spettatore si deve muovere tra lo schermo e la realtà, tra le diverse dimensioni del reale evocate dalle immagini, per scegliere quale percorso seguire nella storia, di quali fatti autenticare il significato rispetto all’esperienza che va facendo. Il fatto che lo spettatore, a differenza di quanto accade con i memofilm, non sia direttamente coinvolto con i fatti narrati non costituisce un problema: si tratta anzi di un’occasione propizia per rilanciare e rafforzare il carattere propriamente politico di questo tipo di cinema civile.
La collocazione nello spazio-tra, né (sia) architettura industriale né (sia) prigione, né (sia) reale né (sia) di finzione, abilita la riqualificazione dell’occhio dello spettatore come sguardo di un cittadino partecipe, che decide i molteplici e possibili sensi che l’incontro tra storie diverse in uno spazio pubblico fa emergere. Il fatto che tale spazio-tra inviti a una ri-disposizione instabile e incerta – per riprendere il titolo di un celebre film sperimentale degli anni sessanta, Verifica incerta (1965) di Gianfranco Baruchello e Alberto Grifi – non solo delle storie, ma anche della disposizione d’animo con cui lo spettatore-cittadino è chiamato a valutare i fatti, rafforza l’atteggiamento politico da assumere di fronte a questo film: la regola per giudicare la vita delle detenute non c’è ancora, va trovata, è un compito in carico allo spettatore.
Così, la storia della lettera con cui un’ex detenuta sceglie di confessare il proprio passato carcerario alla figlia che non sa nulla diventa, grazie alla trasposizione nel mondo della finzione, non tanto una trasfigurazione poetica di una condizione dolorosa come quella della prigione, quanto la trasformazione di un ricordo personale in una domanda di liberazione politica, di possibilità di porre come questione comune il problema della vita dentro e fuori dal carcere.
Riferimenti bibliografici
P. Montani, L’immaginazione narrativa, Guerini, Milano 1999.
Id., L’immaginazione intermediale, Laterza, Roma-Bari 2010.
Id., Tre forme di creatività, Cronopio, Napoli 2018.
P. Ricoeur, Tempo e racconto, vol.1, Jaca Book, Milano 1985.