Spinoza ha affidato alla sua Etica un’affermazione d’immensa portata: «Il corpo umano è composto di moltissimi individui (di natura diversa), ciascuno dei quali assai composito… alcuni sono fluidi, alcuni molli, altri infine duri… ha bisogno di moltissimi altri corpi dei quali è come rigenerato» (De Mente, postulati 1, 2 e 4). Questa immagine del corpo formato di un numero infinito di altri corpi, che restano invisibili e impercepiti, ma che costituiscono la vita di ciascun corpo, ha innumerevoli implicazioni. Che il corpo sia, in ciascun suo singolo istante, quanto risulta dalla composizione di infiniti corpi, restituisce alla vita corporea una complessità che non è evidentemente né anatomica né organica. Potremmo piuttosto dire che ogni corpo è il ritmo della sua combinazione, risultante da quegli altri infiniti corpi di cui per lo più noi non sappiamo nulla. Così la potenza di ogni singola vita, che trae se stessa dalle forme di questa combinatoria, dipende dal numero incalcolabile di rapporti, dalla loro composizione e scomposizione. Dipende in sostanza dal loro continuo mutamento e dalle forme che esso assume. La potenza di un corpo è così data da un insieme di potenze mobili, che discende non solo dai rapporti interni a quel corpo, ma da tutto ciò che il corpo incontra. La sua verità è inseparabile da quella molteplicità di movimenti di cui ciascuna vita è costituita, si fa dunque insituabile.
In questa affermazione la potenza di ogni singola vita viene così a trovarsi intimamente legata alla sua fragilità. Questa non ne costituisce il contrario, a causa del suo dipendere da condizioni che sono sempre superiori alla sua capacità di sguardo e di padroneggiamento. Essere corpo significa allora essere attraversati da un eccesso che ci costituisce, ma che non viene semplicemente da fuori, dato che le relazioni con il suo fuori sono il corpo stesso. In un certo senso, un corpo non solo vive d’infinito. Esso è essenzialmente infinito, e al contempo resta inappropriabile a chi lo vive. Da questo punto di vista è molto difficile decidere dove inizi e dove finisca un corpo, dato che esso è intrecciato con tutti i suoi rapporti, con gli affetti altrui, con il modo stesso di essere dell’infinità che lo costituisce. Lungi dall’essere saldamente ancorato alla sua capsula, ogni corpo è attraversato da tutta la vita della sostanza, al di là di ogni nostro sapere o immaginazione.
Mi è venuta in mente questa immagine spinoziana, e le sue innumerevoli implicazioni, leggendo il libro di Jean-Luc Nancy, Sexistence. La porticina di quella frase della seconda parte dell’Etica mi sembra infatti riesca a rendere conto della complessità dei corpi e dei loro rapporti, che è implicata nella questione del sesso, dell’esistenza non in quanto ha un sesso o una vita sessuale, ma in quanto è essa stessa sessuale. Di un’esistenza che non ha nel sesso una delle sue innumerevoli attività, ma che è sessuale in un senso ben più decisivo. Di questa concomitanza di sesso ed esistenza testimonia non solo il titolo del libro, ma anche la bella formula che Nancy inventa: «Je = sexe. Je s’exe, tu s’exes, nous sexistons». Questa formula è una rivelazione: è come se dovessimo apprendere sempre di nuovo ad articolare le nostre lingue abituali in forme differenti. In fondo il sesso non è che un apostrofo che si apre tra la persona grammaticale, l’io o il tu, e il sesso: s’exe. Come un foglio o una foglia, che però articola la lingua sul registro di una differenza infima, inapparente e insieme infinita.
Che sia così complesso definire cosa sia il sesso, la sessualità, è perché ciò che nominiamo così rappresenta il punto di incontro di eterogeneità irriducibili. Ciascuna vita singolare si intreccia con loro e se ne alimenta. Esse sono là prima ancora che qualcuno possa dire “io” o prima che qualcosa possa dirsi in qualunque modo. È qui che le cose si fanno inevitabilmente scivolose, sfuggenti. E cos’è questo aspetto scivoloso, se non dato dal fatto che le cose implicano la presenza d’altro, di altri? Del resto già l’apostrofo di s’exe ci riporta alla questione del due: della divisione, di un taglio che sarà stato già da sempre lì, prima della vita, condizione stessa per cui una vita possa essere. Così la parola che noi utilizziamo, sesso, reca la traccia di questo taglio, di una separazione che è per sempre, se è vero che gli etimologisti la riportano al latino secare, che vuol dire appunto tagliare, separare.
È proprio questo taglio, questa separazione, che è diventato oggi così difficile da cogliere. Indubbiamente oggi è più facile tenere il sesso in ostaggio tra distruzione e consumazione, due diverse forme di un afferramento impossibile, di un’impossibile oggettivazione che finisce per distruggere se stessa e i suoi presunti oggetti. Scivoloso e inafferrabile lo è il sesso in quanto – come ha scritto Jean-Claude Milner in L’Œuvre claire – è «il luogo della contingenza infinita nei corpi…, la presa dell’universo infinito sul corpo dell’essere parlante». C’è una verità del corpo che non si lascia certamente intendere come verità, cioè come verità di adeguazione o di significazione. Non si lascia trattenere nel luogo classico, né si lascia arrestare nella sua fuga infinita. Forse allora la contingenza assume qui un altro valore che quello a cui solitamente la si associa. Meglio forse dire che la contingenza è il cum tangere, è la tangenza dei corpi a cui ogni corpo è dato come al suo destino che, come nell’immagine spinoziana, rappresenta il destino stesso dei corpi. È il fatto che i corpi si toccano e proprio come tali sono gli uni con gli altri.
“Contingenza” indica che non esiste annodamento di quella materia liquida, scivolosa e inafferrabile, di cui sono fatte le nostre vite. Non c’è rapporto, se non come resa dinnanzi all’inappropriabile materia del sesso, di cui vivono i corpi. Da questo punto di vista è singolare che per Nancy “sesso” designi la figura di ciò che appunto “attraversa tutta la vita” e sia da questo punto di vista l’espressione di ciò che Freud ha portato alla luce con il nome di “pulsione erotica”. Al di là di ogni modello meccanico cui Freud viene riportato dai suoi stessi interpreti, «pulsione» è il nome di ciò che impedisce alla vita la chiusura e la mantiene aperta verso «un sovrappiù di vita» (Nancy 2017, p. 30). Materia molteplice ed eterogenea di cui i corpi sono costituiti, quella del sesso non è una materia continua, né garantisce alcuna forma di continuità. Ha piuttosto la consistenza di un ritmo, che va e viene. Nancy ricorda come pulsione e pulsazione siano prossime.
Pulsano, i corpi. Lampeggiano come stelle. Ma i loro lampi sono «un segno che non ha altro significato se non se stesso… un segno interamente fatto della propria esposizione, della propria luce, del suo brillare». Come nelle invocazioni d’amore o nelle esclamazioni sessuali in cui il linguaggio cessa di essere significazione, per farsi forma del godere. Ogni godimento è a sua volta preso tra la lingua (dev’essere detto) e il suo atto (dev’essere fatto). Godere fa dire o dirsi, su un crinale dove l’enunciazione appartiene al godimento: «Il dire, esso stesso assolutamente, è godimento».
Se qualcosa del soggetto accade nel punto di incrocio tra queste due misure irriducibili l’una all’altra, tra il linguaggio e il sesso, è perché forse il soggetto stesso non è altro che il punto «in cui il sesso si nomina (si presenta) e dove il linguaggio si genera come proprio (io parlo “in mio nome”)». Questo non impedisce di pensare sesso e linguaggio come quanto precede il soggetto e da cui il soggetto ha inizio ogni volta di nuovo e come per la prima volta. Come qualcosa che supera i limiti temporali di una vita individuale. In questo incrocio c’è certo qualcosa di estremamente soggettivo. Contemporaneamente il sesso non smette di far segno a un godimento che, come ha scritto Alenka Zupančič, non smette di accadere lontano dal soggetto. Questo lontano che ci accade addosso e che non smette di accaderci, come alterità dei nostri stessi vissuti, non è forse che il lato impersonale delle nostre vite. È meno qualcosa che vive in ciascuna delle nostre vite, quanto la nostra stessa vita, che è una vita a sé: inappropriabile, imprevedibile, incostante, resistente.
Riferimenti bibliografici
J.-C. Milner, L’Œuvre claire, Seuil, Parigi 1995.
J.-L. Nancy, Sexistence, Galilée, Parigi 2017.
B. Spinoza, Etica, Bompiani, Milano 2007.