Senza gli altri ha una qualità rara per un libro di filosofia: si legge come un romanzo. E non solo perché è scritto in una lingua libera, scevra di accademismi, ma anche perché è fitto di esempi (il duello, il sesso, il party) e di personaggi (il condottiero, l’ubriacone), nonché costellato di storie (non ultima quella della banda della Magliana).
Ciò non toglie che in questo libro Tommaso Tuppini persegua con grande coerenza e rigore un purissimo intento filosofico: ritagliare con precisione i contorni di un “oggetto” generalmente male identificato, perché intrinsecamente sfuggente: quello che l’autore (chiamando in causa William James e alcuni altri) chiama esperienza pura o esperienza assoluta. Già il nome di questo “oggetto” lascia immaginare che non si tratti, propriamente, di un oggetto, cioè di qualcosa che possa presentarsi di fronte a un soggetto. E in effetti la logica dell’esperienza assoluta implica che tanto il soggetto quanto l’oggetto non siano i presupposti dell’esperienza, ma semmai i suoi effetti.
Una volta stabilita la priorità dell’esperienza sia su colui che la fa sia su ciò che in essa si manifesta, il rischio che si corre è quello di non riuscire più a uscire dal buco nero di un non-oggetto inafferrabile. Il grande merito di Tuppini sta invece proprio nell’aggirare questo rischio o, meglio, nel mostrare come l’assolutezza dell’esperienza pura non debba necessariamente condurre verso un misticismo del vissuto.
Lo testimonia un esempio luminoso, tratto dal Mandukya Upanishad («testo indiano composto probabilmente tra il V e il IV secolo a. C., poco tempo prima che nascesse Aristotele», Tuppini 2025, p. 31), nel quale vengono definiti quattro stadi dell’esperienza: la veglia, il sogno, il sonno senza sogni, il risveglio. Senza entrare nelle diverse funzioni a cui questo esempio adempie nel testo di Tuppini, basti dire che l’ultima forma dell’esperienza, quella che potrebbe presentarsi come esito mistico, consiste invece in un vivere altrimenti la stessa veglia, cioè l’esperienza ordinaria. In breve, nella veglia facciamo esperienza del mondo e degli altri come se questi fossero in relazione di esteriorità con noi stessi, soggetti dell’esperienza, mentre nella quarta forma di esperienza tutto, noi stessi, il mondo, gli altri, è posto su un medesimo piano e fatto di una medesima sostanza. Ciò che cambia, dalla veglia al risveglio, è che in quest’ultimo non sussiste più alcuna forma di relazione: il molteplice si rivela come nient’altro che una variazione dell’uno.
Un tale partito preso nei confronti dell’uno porta Tuppini a una spassosa fenomenologia delle declinazioni contemporanee del due, ovvero delle varie filosofie dell’alterità (per esempio Levinas e Irigaray). Più che un confronto o una critica, posture che certo non si addicono a un pensiero dell’esperienza assoluta, quello di Tuppini è semmai uno sfogo contro tutti coloro che pensano non si possa filosofare senza moralizzare, che pensano per esempio di essere in dovere di criticare la sensazione perché, nella sua idiosincrasia, non tiene nel dovuto rispetto l’irriducibilità dell’Altro.
Al di là dello sfogo, più che legittimo del resto, la mossa pienamente azzeccata del testo consiste nel mostrare come proprio le situazioni nelle quali si è in due possano essere lette anche senza le nozioni di relazione e di alterità. È il caso del duello. Rispetto a questo esempio, Tuppini (rifacendosi al testo di Herrigel Lo Zen e il tiro con l’arco) spiega che «il duello non sono io, non sei tu, non siamo nemmeno noi. Fare astrazione da sé e dall’avversario, fare il vuoto, vuol dire che non ci siamo io e te, ma c’è soltanto il duello […]. Lo spazio e il tempo del duello è un unico blocco di esperienze senza crepe» (ivi, pp. 104-105). Anche nel duello perfetto c’è un vuoto, ma non si tratta dello spazio incomprimibile che separa e distingue due persone, bensì del vuoto che ognuno dei duellanti fa in sé stesso per fare spazio e dare luogo al duello: «L’impalpabilità di un’azione che coinvolge entrambi e li unisce» (ivi, p. 105).
Dall’esempio del duello a quello di «due corpi stretti, stretti nell’estasi d’amor» (ibidem), il passo è breve. Anche qui, non ci sono due amanti, se non quando la cosa fallisce. Siamo in due solo agli occhi del guardone (personaggio filosofico che incarna forse nel migliore dei modi il filosofo dell’altro-in-quanto-Altro): «Il voyeur che spia dal buco della serratura vede due corpi, ma per chi è stretto, stretto non ci sono due corpi e nemmeno c’è un unico corpo mostruoso tipo centauro: c’è invece una serie di sensazioni, eccitamenti, delusioni, entusiasmi, slanci e ritrosie che insieme fanno il mondo impersonale del sesso. […] Si fa l’amore esattamente come si duella» (ivi, p. 106). Non anticipiamo, infine, per lasciarlo al piacere del lettore, l’esempio serissimo del party.
In ogni caso, l’essenziale sta nel fatto che la solitudine di cui si parla nel sottotitolo del testo non è la solitudine di qualcuno, ma è la stessa assolutezza dell’esperienza. Non io sono solo nel corso dell’esperienza, ma è l’esperienza ad essere sola, dal momento in cui io riesco a fare a meno della mia presenza (e l’altro della sua). Questo esser ognuno fuori di sé non è qualcosa che renda muta o misteriosa l’esperienza, ma è al contrario la condizione della sua più limpida effettuazione.
E tuttavia, a questa estasi che ci consente di aderire senza riserve alle esperienze della nostra vita, a questa estasi nella quale consiste l’unica felicità possibile (felicità di cui non posso entrare in possesso come se fosse una cosa, perché è semmai un luogo che ho talvolta la ventura di riuscire a visitare), non è semplice attenersi. Prendendo atto di questo, Tuppini non esita a porsi la domanda più disturbante: «Se le cose stanno così, perché l’esperienza incespica, zoppica, cade, e alle volte sembra incapace di rialzarsi? Perché la vita è difficile?» (ivi, p. 248). Se l’esperienza assoluta è il nostro modo di dire sì alla vita così com’è, se è la nostra grande salute, per quale ragione così spesso ci ostiniamo a prendere le distanze dalla vita, sino a sottoporla alla violenza di un giudizio continuo?
«Se qualcosa non sta andando per il verso giusto, vuol dire che sentiamo una contraddizione tra ciò che accade e ciò che ci aspettavamo. È in questi frangenti che l’esperienza si mette a riflettere: cosa è successo? Di chi è la colpa?» (ivi, p. 249). Questo esito nevrotico, fonte di ogni disastro esistenziale, sembra sorgere insieme alla pretesa che le cose siano diverse da come sono. È un esito probabilmente inevitabile, se la nostra vita è intessuta di desideri d’altrove e d’altrimenti, e se ciò che di volta in volta siamo, qui e ora, mal si concilia con le paure e le speranze da cui siamo tormentati. Perciò Tuppini conclude nella maniera più cruda che il presente assoluto dell’esperienza «è troppo nudo di illusioni per poter essere accettato fino in fondo ed è per questa ragione che spesso gli si dice di No» (ivi, p. 304).
Tommaso Tuppini, Senza gli altri. Esperienza assoluta e solitudine, Solferino, Milano 2025.