Se andiamo a spulciare dentro la storia del pensiero, ci accorgiamo che esistono due versioni della passione filosofica per l’esperienza. La prima versione dice che tutto viene dall’esperienza, nel senso che abbiamo comportamenti, idee, conoscenze, abitudini, parole, paure e desideri che non sono innati, perché vengono dalle cose e dalle persone che incontriamo. Questa è una versione che vorrei chiamare “relativa” di esperienza: l’esperienza è fondamentalmente un’esperienza della relazione. Ci sono io – o comunque si voglia chiamare il polo soggettivo dell’esperienza – però io sono in mezzo a cose e persone che non sono io. È da loro che ricavo tutto ciò che so a proposito del mondo e di me stesso. 

Accanto a questo pensiero della esperienza come relazione, c’è un pensiero diverso, formulato per la prima volta da Kant con una frase abbastanza sibillina che dice più o meno così: le condizioni dell’esperienza sono allo stesso tempo condizioni degli oggetti dell’esperienza (la citazione originale è un po’ differente, ma per i nostri scopi non è importante). La prospettiva aperta dal pensiero di Kant è vastissima e si oppone alla comprensione dell’esperienza come relazione tra una cosa (o una persona) e un’altra. Per Kant le condizioni di un’esperienza sono anche le condizioni degli oggetti popolano l’esperienza. Magari non comprendiamo bene Kant, però sentiamo che sottotraccia, più che di una relazione tra differenti, si sta parlando di una identità. Ascoltata in modo radicale l’affermazione di Kant dice che non c’è una vera differenza tra l’esperienza e le cose dell’esperienza. Detto in modo più stringato: l’esperienza è la stessa cosa che gli oggetti dell’esperienza. Detto in modo ancora più stringato: l’esperienza non è relativa ad altro ma è assoluta. I filosofi dell’idealismo tedesco hanno cercato di interpretare Kant proprio così.

Dall’altra parte dell’oceano un filosofo americano, William James, diceva che l’esperienza, di per sé, è isolata e assoluta. William, fratello del più celebre Henry autore di Ritratto di signora, è il pensatore che su questa strada si è spinto più lontano di tutti. Assoluta è l’esperienza “non dovuta a due fattori”. I due fattori sono i mattoni costitutivi dell’esperienza relativa: il soggetto e l’oggetto, la coscienza e il mondo esterno, io e te, io e gli altri. L’esperienza duale è l’esperienza relativa. L’esperienza assoluta, invece, non è fatta da due, da tre, o da molti elementi, ma da Uno. L’ambizione di James è mostrare che l’esperienza assoluta non è una cosa particolarmente esotica ed eccezionale ma una cosa di tutti i giorni. 

Se la filosofia fa l’impressione di un paradosso, è perché si sforza di rendere concettualmente chiare le cose più scontate, quelle così ovvie che ce ne siamo dimenticati. Alcune cose sono diventate ovvie a furia di dirle e sentirsele dire tutti i giorni, ad esempio che l’esperienza è relazione. Altre cose sono ovvie perché accadono sempre, anche se non ce ne accorgiamo e non troviamo le parole per dirle. L’esperienza assoluta è un esempio di questo secondo tipo di ovvietà. Noi comprendiamo abbastanza bene un’esperienza fatta di relazione, ci sembra la cosa più reale e concreta di tutte. Un’esperienza assoluta, invece, ci sembra di non capirla, anche perché pensiamo che è molto astratta e irreale.

Siamo convinti che l’esperienza è relazione, l’esperienza è sempre di qualcosa. Scrivere il “di” in corsivo enfatizza il fatto che una esperienza è necessariamente rimessa a qualcosa d’altro: ciò di cui si fa esperienza non è colui o colei che fa esperienza. Se l’esperienza è fatta di relazione, allora l’esperienza è una cosa e ciò di cui si fa esperienza è un’altra cosa. C’è una differenza tra l’esperienza e ciò di cui si fa esperienza. L’esperienza assoluta, invece, non è esperienza di qualcosa ma, piuttosto, una esperienza-qualcosa. Non sono sicuro che, dicendo così, abbiamo fatto grandi passi avanti. Forse abbiamo solo creato una nuova e ancor più strana espressione che cerca di compendiare il pensiero kantiano di prima: l’esperienza è la stessa cosa che gli oggetti dell’esperienza.  Comunque, la faccenda è molto più vecchia di Kant. Una chiara formulazione dell’esperienza assoluta si trova ad esempio nel Mandukya Upanishad, un testo indiano composto probabilmente tra il quinto e il quarto secolo a.C., poco tempo prima che nascesse Aristotele. 

Nel libro del Mandukya si parla di quattro stadi dell’esperienza: veglia, sogno, sonno senza sogni, risveglio. La veglia corrisponde a ciò che abbiamo chiamato esperienza della relazione. Infatti, da svegli siamo convinti che esistiamo noi ma esistono anche le altre persone e le altre cose che ci è dato di incontrare. Questa convinzione vacilla quando sogniamo, perché chi sogna non distingue molto bene sé dalle cose che sogna. Nel sogno pensiamo: stai a vedere che adesso spunta fuori una tigre! E la tigre si presenta. Se nella veglia siamo rimessi alle cose e alle persone che dispongono di noi, nel sogno ci sembra che, al contrario, siamo noi a disporre liberamente di tutto e tutti. Nella veglia il soggetto è relativo a ciò che sta fuori, nel sogno, invece, il soggetto è la fonte di ciò che incontra. Il sogno è un’esperienza duale, come la veglia, però diversa, perché nel sogno il soggetto è più potente dell’oggetto, invece nella veglia sono più potenti gli oggetti. 

Rispetto alle prime due, veglia e sogno, con le quali siamo abbastanza famigliari, la terza forma dell’esperienza sembra più strana: il sonno senza sogni. In realtà capita a tutti di dormire senza sognare, anche se ce ne accorgiamo soltanto dopo il risveglio. Se dormiamo senza sognare, noi, in un certo senso, non ci siamo. Non ci siamo, perché un soggetto per esserci ha bisogno di una relazione con un oggetto, un io ha bisogno di una relazione con un mondo esterno, un sé ha bisogno di una relazione con l’altro. Ma è proprio questo che nel sonno senza sogni non si dà: la relazione. La profondità di un sonno che fa a meno del sogno è l’esempio più chiaro del fatto che l’esperienza non consiste necessariamente di differenze, distanze e relazioni. Nella terza tappa dell’esperienza, infatti, non c’è niente di “altro”. Il problema è che il sonno senza sogni ci sembra una cosa un po’ troppo povera e monotona e molto vicina al nulla. Comunque, per quanto sia impalpabile e ricostruita soltanto a posteriori, la realtà indubitabile di un sonno senza sogni significa che esiste una esperienza nella quale non sono dati né soggetti né oggetti, né mondo interno né mondo esterno, né io né altri. L’esistenza di un sonno senza sogni è la prova provata che la vita non è sempre e comunque esperienza di una relazione

La quarta tappa, il risveglio o turīya, è la più difficile da capire, perché significa vivere la veglia, dunque il primo momento, come si vive il sonno senza sogni, quindi il terzo. Vivere la veglia come se fosse un sonno senza sogni, vuol dire che anche da svegli possiamo fare una esperienza che non è relativa. Il turīya è un’esperienza senza relazione come il sonno senza sogni, ma vivace e colorata e multiforme come lo è la veglia. Turīya è un nome arcaico e iniziatico per ciò che la filosofia chiama esperienza assoluta. 

Tommaso Tuppini, Senza gli altri. Esperienza assoluta e solitudine, Solferino, Milano 2025.

© Solferino Editore Milano
Collana “Anders” febbraio 2025

Tags     esperienza, Kant, solitudine
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