Qualunque fuggiasco che nutra un certo disgusto per l’antropocentrismo non può evitare di fare i conti con la pratica effettiva della sua postura. Uscire da uno schema, che pone al centro l’essere umano per spiegare la costituzione del mondo, porta con sé non poche difficoltà, innanzitutto perché, di fatto, riteniamo che sia impossibile evadere dalla nostra natura più propria senza trascenderla. La possibilità di pensare una comunità metafisica con gli animali, le piante, gli insetti, l’erba non fa che domandarci con insistenza: ma come fare? Si tratterà da un lato di ripensare la nostra natura umana, il cui primato non è che un inganno di lunga data, e nel frattempo di agire all’interno di questa stessa costituzione, sovvertendone i principi. Sottomettersi all’ideale umano per pervertirlo significa innanzitutto situarsi in uno stato che considera l’adulto l’unico rappresentante di Homo sapiens, nella misura in cui solo colui che è uscito dalla gioventù si rivela un essere perfettamente individuato in grado di porre una distanza tra sé e il mondo che lo circonda. È da questa visione adulto-centrica che Leonardo Caffo, con il suo ultimo testo Essere giovani (Ponte alle Grazie, 2021), vuole fuggire.
Il viaggio in cui ci accompagna non è privo di imprevisti e dubbi e rende conto di tutti i problemi che una simile fuga comporta. La stessa forma del testo, che è innanzitutto un’autobiografia, dice della possibilità di raccontare una storia comune, quella che ogni giovane non può non aver vissuto, e al tempo stesso dichiara l’esigenza di pensare che diventare adulti sia una gran menzogna. Il suo obiettivo è non solo fornirci una fenomenologia dell’essere giovani per comprendere cosa significhi effettivamente esserlo, ma è anche e in primo luogo la proposta di una certa forma di vita, la cui pratica necessita di una decostruzione preventiva di quel sistema dominante che fa dell’età adulta il compimento di ogni essere umano. In questo senso, il primo bersaglio di Caffo non può che essere Heidegger: se il Dasein è un essere teso in avanti attraverso i progetti, che guarda il mondo per scompartimenti, solo l’adulto può «gestire tempo e metafisica con la tassonomia descritta in Essere e tempo da Heidegger» (Caffo 2021, p. 21).
Ciò che ci rivela il modo di stare al mondo dei giovani dice esattamente il contrario della metafisica heideggeriana: presenza piuttosto che separazione, essere mondo piuttosto che averlo. Il giovane semplicemente esiste: è, per dirlo con Deleuze, un homo tantum, un essere generico, che non ha assunto ancora nessuna forma o funzione specifica. «Non c’è dubbio che i giovani, come un filo d’erba, siano più in contatto con la struttura delle cose di quanto non lo siamo noi che pure, con il dono della consapevolezza, tentiamo di conoscere – allontanandole – le entità che popolano il mondo» (ivi, p. 163). I giovani, che fanno tutt’uno con ciò che esperiscono senza operare separazione alcuna, ci rivelano un mondo di immanenza assoluta, in cui porre sullo stesso piano tutto ciò che c’è rende impossibile qualunque accusa di blasfemia. Poiché ogni cosa assume per loro la stessa importanza, la scala gerarchica a cui una certa tradizione ci ha abituati svanisce di colpo: per i giovani «le sorti dell’umanità appaiono rilevanti come il percorso delle foglie nel vento, il processo di una fotosintesi clorofilliana, la digestione di un elefante, il sedimentarsi delle rocce, un bruco che diventa farfalla» (ivi, p. 67).
L’identificazione della gioventù con la «vita in quanto vita» (ivi, p. 124) conduce spesso il nostro autore a usare analogie col mondo inumano: un filo d’erba, un animale, un insetto, un elemento inorganico. L’insistenza di Caffo sulla vita e sul dinamismo nel descrivere la forma di vita dei giovani che guardiamo saltare attorno a noi (gli adulti, ci viene detto, non saltano più) non è che un modo per contrapporsi alla stasi e alla solidificazione dell’esistenza adulta che si è separata dal mondo. Non si tratterà, certo, di sottolineare la gioia di vivere dei giovani, perché i fatti lo smentirebbero, ma di dire che il loro movimento ininterrotto è il sinonimo di un «essere che è tutt’uno con la vita» (ivi, p. 118). Il loro è un fare senza alcun fine: non è uno schizzo ma uno scarabocchio, «un processo che non conduce ad alcunché» (ivi, p. 127). In questo senso, «se c’è qualcosa che, da Parmenide a Severino, può davvero condurre a dubitare dell’esistenza del “divenire” questa è senza dubbio la gioventù intesa come frammento eterno» (ivi, p. 81). È proprio qui che si mostra tutta la portata inumana dei giovani. Cosa sono, in fondo, un animale, una pianta? Sono quel che sono, nient’altro. Come il divenire-erba è un modo per evadere dal mondo umano, così essere giovani non sarà che una forma di fuga alternativa da quello stesso mondo, con l’unica differenza che «la gioventù, al contrario del paradigma animale o vegetale, è una soluzione tutta interna a Homo sapiens per sconfiggere il suo centralismo» (ivi, p. 145). Sta tutta qui la forza della proposta umoristica e masochista di Caffo: aggirare ciò che, nostro malgrado, ci costituisce, scavandolo dall’interno per capovolgerlo.
Pensare un rovesciamento della gerarchia adulto-centrica va di pari passo con l’esigenza di proporre la gioventù come concetto trascendentale rispetto al quale leggere tutto il resto, prima su tutti l’età adulta. Poiché il giovane è quell’essere che vive e coincide con la vita in quanto tale, l’adulto sarà non solo «un bambino irrisolto» (ivi, p. 137), ma soprattutto un essere contro natura che non è più in grado di coincidere con la vita che vive, nella misura in cui crescere non può che porsi come «un atto di violenza» (ivi, p. 19). Forse non abbiamo ancora capito cosa significhi esser giovani, perché non sappiamo a quale età ci stiamo riferendo, ma Caffo ci tranquillizza: non è l’età a definire la forma di vita che stiamo studiando, quanto il fatto che sia un’idea. Niente di platonico, s’intende: si tratta piuttosto di un pensiero che coincide immediatamente con la vita stessa, «un’idea che vive, un’idea che corre, un’idea che si schianta senza la paura di morire, di essere sbagliata, di una congestione durante un bagno notturno» (ivi, p. 115).
Proporre una fuga dalla forma di vita adulta significa suggerire una pratica della gioventù, la cui fisionomia viene delineata a partire da una mossa strategica ben precisa. La distinzione giovane/adulto diventa ontologicamente anteriore a quella natura/cultura, dal momento in cui la gioventù, che è un possibile e mai qualcosa di contingente, inizia a essere pensata come un dispositivo attivabile in qualunque fase della vita, ovvero in ogni età biologica: «Essere giovani potrebbe significare soprattutto performare gioventù, attivandola come un dispositivo» (ivi, p. 100). Per non scadere nel banale, occorre mantenere una certa cautela nel comprendere le forme che questa pratica può assumere. Come la droga, che ci rende indiscernibili dall’ambiente circostante, è il surrogato temporaneo di un’effettiva fuga dal mondo umano, così l’atteggiamento di chi forzatamente s’induce giovinezza è solo il tentativo goffo di sentirsi giovani, mai di esserlo. «Si potrebbe dunque sostenere di avere qualsiasi età ed essere, al contempo, giovani? Non “giovanili”, parola oscena, ma proprio giovani» (ivi, p. 114). Ecco la scommessa metafisica del testo: dovrà trattarsi non di un’eccezione momentanea né di un inganno, quanto di una vera e propria postura da assumere: quella di essere giovani.
È nella pratica reale di questa forma di vita che Caffo oscilla: a volte, la gioventù si rivela essere il bassofondo continuo di ogni esistenza, impossibile da perdere (forever young); in altri casi, sembra che solo gli adulti possano essere giovani; infine, come non biasimarlo, Caffo ci consegna tutte le sue perplessità sulla possibilità di attuare in modo permanente questa pratica. Eppure ciò che ci rimane dopo aver chiuso questo libro, al di là di una sottile nostalgia, non può che essere la necessità di riabilitare un certo modo di pensare e guardare il mondo. Come se fosse antani: Caffo ci ricorda la supercazzola di Amici miei per dirci che il gioco è uno dei mezzi principali con cui ridiventare giovani. Ma la proposta deve andare oltre, perché non è sufficiente crearsi una bolla fuori dell’ordinario per esercitare a pieno titolo la rivoluzione. Poiché «la vita del giovane è tutta interna al gioco» e «quando si gioca semplicemente si è» (ivi, p. 34), si tratterà di prendere la vita stessa come un gioco. Se l’adulto lavora e non può non lavorare – Caffo, fortunatamente, ce lo dice en passant – dovrà imparare a farlo assumendo una diversa logica.
Lungi dall’essere un impedimento allo svolgimento dell’esistenza, questo modo di guardare il mondo deve consentirci di affrontare ciò che accade come se fossimo delle spugne: «Il mondo deve attraversare i giovani e mai essere assorbito; l’impresa della conoscenza umana, cioè l’impresa del divenire adulti, va usata senza mai essere acquisita» (ivi, p. 124). A tutti noi, giovani ma non più giovani da un po’, non possiamo smettere di ripetere: «Che meraviglia, arrossire. Arrossire e non sapere il perché» (ivi, p. 33).
Leonardo Caffo, Essere giovani. Racconto filosofico sul significato dell’adolescenza, Ponte alle Grazie, Milano 2021.