Grazie alla cura di Luciano Ponzio, insigne studioso di semiotica delle arti e docente presso l’Università del Salento, torna nelle librerie italiane un classico della teoria del cinema. Si tratta di Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica (Semiotika kino i problemy kinoestetiki) di Juirij Lotman, pubblicato nel 1973 e che ha avuto nel corso del tempo diverse edizioni italiane. Nella sua Presentazione del testo il curatore non solo fornisce un quadro esaustivo degli interessi del grande semiologo sovietico per il cinema, ma traccia anche una storia della fortuna critica di questo testo nel panorama italiano. Tra le summenzionate traduzioni Ponzio si sofferma giustamente su quella uscita già nel 1979, pochi anni dopo l’edizione originale, presso la casa editrice romana Officina con il titolo di Introduzione alla semiotica del cinema e per la traduzione di Antonella Summa, Renata Archini e Maddalena Forti. La traduzione della presente è, sia detto di passata, dello stesso curatore, cui va dunque la nostra ammirazione per il tour de force richiesto dal corpo a corpo con la lingua russa.
Il riferimento alla prima edizione italiana del testo è di fondamentale importanza per comprendere sia i nodi teorici in esso contenuti sia il suo significato per il dibattito italiano. Il saggio di Lotman esce infatti nella collana “Segno e interpretazione”, diretta da Pietro Montani, autore anche della Prefazione a quella edizione. È una collocazione significativa, dal momento che questa collana era stata inaugurata da un saggio di svolta di Emilio Garroni, Ricognizione della semiotica, in cui il filosofo individuava nel cosiddetto “imperialismo semiotico”, vale a dire nella pretesa di ridurre ogni fenomeno culturale (e forse ogni fenomeno tout court) alla dimensione di un codice linguistico o paralinguistico, il limite maggiore delle discipline semiotiche o semiologiche e, contestualmente, affermava la tesi per cui, in vista della comprensione di qualsiasi codice o linguaggio, dovesse essere posta una preliminare “condizione estetica”.
Tale condizione va intesa nel senso che, se ogni codice o linguaggio prevede un’applicazione di regole in genere, poiché il ricorso a una regola che giustificasse l’applicazione di un’altra regola comporterebbe un regresso all’infinito, occorre piuttosto supporre che, nell’atto di applicare una regola, il soggetto senta la giustezza di tale applicazione. Su questo punto è tornato di recente, con l’acutezza che lo contraddistingue, Paolo Virno. Non si tratta ovviamente di un sentimento irriflesso. Garroni, che con Ricognizione fa rientrare nel dibattito semiotico non solo l’estetico come componente autonoma ma anche il Kant della terza Critica (con un gesto teorico la cui giustezza sarà riconosciuta anni dopo da Umberto Eco nel suo Kant e l’ornitorinco), pensa a un sentire intriso di riflessione, insediato nel cuore dell’esperienza, che presiede all’atto del giudicare e che anticipa la conoscenza propriamente detta. Si tratta di una riformulazione della questione del giudizio riflettente, che è alla base dell’estetica kantiana.
Traducendo letteralmente il titolo del saggio di Lotman, Ponzio vuole sottolineare esattamente il fatto che si tratta di un testo in cui le due prospettive sul cinema, la semiotica e l’estetica, si incontrano e negoziano patti di reciproco scambio. L’altro elemento di interesse sotto il profilo di una ricostruzione storiografica del dibattito è dato dalla presenza di Pietro Montani, il quale forse più di ogni altro ha contribuito in Italia alla conoscenza dei grandi teorici russi sul cinema, ripubblicando tra l’altro di recente (2019, sempre per i tipi della Mimesis) l’antologia già curata da Giorgio Kraiski su I formalisti russi nel cinema in un’edizione rivista che amplia l’arco temporale, accogliendo anche un saggio dello stesso Lotman. Il filo rosso idealmente tracciato da Montani, che coincide in larga misura con la prospettiva assunta da Ponzio, indica in questo plesso di estetica e semiotica l’esito ultimo di una riscoperta della forma come punto di partenza di uno studio sul cinema.
In altre parole, la forma-cinema non può né essere identificata con la traduzione del girato in un linguaggio rigidamente regolato da una grammatica (in “segni convenzionali” secondo l’espressione di Lotman) né essere ridotta esclusivamente alla pura visibilità delle immagini in movimento (i “segni iconici” per dirla con Lotman). La forma-cinema si lascia modellizzare, per così dire, solo all’interno dello spazio diagrammatico compreso entro i due assi summenzionati. Di tale condizione il montaggio costituisce un caso esemplare. Tale procedimento si lascia volentieri organizzare in grammatiche.
La teoria e la poetica del cinema abbondano in tal senso: Epstein, Griffith e naturalmente Ejzenštejn e Vertov, per citare solo alcuni giganti delle origini del cinema. Tuttavia, nessuna di queste grammatiche esaurisce le possibilità espressive dell’immagine, che nel cinema si manifestano proprio in virtù del montaggio. In questo modo la prospettiva teorica di Lotman illumina alcune notevoli proposte poetiche del secondo Novecento, in particolare nel cinema italiano, dal Neorealismo fino alla “lingua scritta della realtà” di Pasolini. Non va dimenticato che Lotman, come emerge dalla lettura del saggio, era uno spettatore informato e appassionato.
In conclusione mi permetto di formulare un’ipotesi su uno dei possibili “compiti” che Lotman affida agli sviluppi successivi della sua teoria del cinema. Torno qui alle considerazioni iniziali su Garroni e sulle implicazioni reciproche tra semiotica ed estetica nella teoria del cinema. Qui ne va infatti di un ripensamento sulla natura del riferimento in opera nell’immagine cinematografica. Il cinema, le immagini in movimento, è oggetto di speciale attenzione non genericamente di un’estetica ma di una “cine-estetica”. Il transito del prefisso “cine” dalla pratica artistica alla riflessione filosofica non è il sintomo di un vezzo stilistico.
L’estetica si fa “cine-estetica” nella misura in cui mette al centro della sua riflessione sul sentire riflettente del soggetto il tema (già presente in Kant) della vitalità annessa all’esperienza, della animazione del pensiero. L’immagine cinematografica interessa in quanto afferra il movimento e quindi la vita. Il riferimento della forma-cinema è perciò la vita presa nella sua più ampia complessità. E tale forma si presta in questo modo a esibire esemplarmente le forme di vita.
Riferimenti bibliografici
U. Eco, Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 2013
E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina, Roma 1977
P. Montani, a cura di, I formalisti russi nel cinema, Mimesis, Milano 2019
P. Virno, E così via, all’infinito: logica e antropologia, Bollati Boringhieri, Torino 2010
Jurij Michajlovič Lotman, Semiotica del cinema e lineamenti di cine-estetica, Mimesis, Milano 2020.