Wim Wenders si commuove ancora “fino alle lacrime” di fronte alla fotografia di una donna tuareg cieca che tiene appesa accanto alla sua scrivania, e che vede ogni giorno ma alla quale non è mai diventato indifferente; è una foto di Sebastião Salgado, uno a cui, come il regista capì quando ne incontrò il lavoro, “importava davvero degli esseri umani”. A Salgado non importa solo degli esseri umani, ma della terra e della natura, alle quali ha dedicato, solo pochi anni fa, il monumentale affresco fotografico Genesis (2013); e tuttavia è l’umanità a costituire il “sale della terra” (così Wenders intitola nel 2014 il suo film sul fotografo): va perciò esplorata con passione, come spesso fanno i fotografi, ma anche con sistematicità scientifica, con un progetto etico e un obiettivo comunicativo. È questo ad averlo reso celebre in tutto il mondo e allo stesso tempo un fotografo problematico.

Stavolta il fotografo-economista brasiliano si è dedicato, per sei lunghi anni, all’esplorazione dell’Amazzonia. Il risultato è la mostra proposta, in Italia in anteprima, dal MAXXI di Roma (Sebastião Salgado, Amazônia, fino al 13 febbraio 2022) dove, attraverso 200 immagini accompagnate da un suggestivo paesaggio sonoro creato da Jean-Michel Jarre, trasferisce letteralmente il visitatore alle origini del mondo e dell’uomo. Quello della foresta brasiliana (un organismo capace di raffreddare il pianeta, generare piogge e assorbire i gas serra) è un ecosistema fragile: Lélia Wanick Salgado, curatrice della mostra, ci aiuta a prenderne coscienza attraverso l’emozione – la commozione – suscitata dai potenti contrasti in bianco e nero delle fotografie e insieme dai suoni della foresta che assumono a tratti toni forse volutamente inquietanti. Mentre i grandi e luminosissimi paesaggi di acqua e nuvole piovono dall’alto nel buio cieco delle sale, ai nativi sono riservati spazi espositivi disegnati come le loro accoglienti abitazioni primitive: Salgado li ha ritratti portandosi dietro come sfondo un telo di 6×9 metri, come facevano i fotografi occidentali quando immortalavano le famiglie nell’Ottocento; gli sguardi di questi uomini e donne ci dicono che anche loro sono nostri “antenati”, che sono come noi ma sanno più di noi. Nell’universo misterioso della Amazzonia la natura parla all’uomo come in nessun altro posto al mondo: il fotografo ha vissuto lunghi periodi con gli Asháninka, gli Yawanawá e le altre comunità amazzoniche studiandone abitudini e rituali con un preciso obiettivo: «My wish» scrive nel catalogo «with all my heart, with all my energy, with all the passion I possess, is that in 50 years’ time this book will not resemble a record of a lost world. Amazônia must live on».

Salgado non è nuovo a questo genere di operazioni, in cui la bellezza diventa strumento di denuncia. Classe 1944, ha viaggiato in 100 paesi per quasi tutta la vita alla ricerca di storie difficili che chiedevano di essere conosciute, allo stesso tempo tragiche e attraenti. Quando si ha un obiettivo importante, ogni mezzo, e dunque anche le scelte estetiche, è dedicato al suo raggiungimento. Significativamente, la mostra è (vuole essere) allo stesso tempo suggestiva e immersiva, ma anche informativa e didascalica: ci sono mappe con dati economici, approfondite spiegazioni della realtà di quella terra e delle minacce alle sue popolazioni, testimonianze filmate dei capi delle comunità indigene.

Se è vero che quasi ogni fotogiornalista o fotografo sociale, da quasi un secolo, ha raccontato storie di crisi, di esclusione e di miseria, il lavoro di Salgado, anche per l’ammirazione che riceve ovunque da parte del grande pubblico, esprime esemplarmente due aspetti, in una certa misura collegati, che hanno segnato il reportage fotografico: l’estetizzazione del dolore e, fenomeno più recente, la musealizzazione dell’inchiesta visiva.

Già Susan Sontag, ripensando autocriticamente la sua denuncia della fotografia del dolore come “analgesico morale”, indicò in Salgado il bersaglio privilegiato di ogni campagna contro l’”inautenticità del bello”, sottolineando in particolare come il problema risieda più che nel contesto comunicativo, nelle stesse immagini: le fotografie che raffigurano la sofferenza non dovrebbero essere belle, sostengono i detrattori dei fotografi come Salgado, poiché la bellezza sposta l’attenzione dalla gravità del soggetto al medium in sé. Le immagini spettacolari, “cinematografiche”, di Salgado sull’epica dei migranti o sui nativi senza nome, rendono la sofferenza qualcosa di indefinito: «Di fronte a un soggetto concepito su questa scala la compassione non può che vacillare e diventare astratta» (Sontag 2003).

Salgado però non si limita alle immagini: cura il contesto comunicativo almeno quanto le sue fotografie, come fanno spesso i fotografi che sono riusciti a rendersi autonomi dalle logiche editoriali delle testate giornalistiche. Negli ultimi anni (si può dire dopo il trauma dell’11 settembre 2001), con la diffusione della tecnologia digitale, che ha aumentato il numero dei fotografi amatoriali anche sui fronti di crisi, i professionisti hanno progressivamente ridotto il loro ruolo nel sistema dell’informazione; un fenomeno stigmatizzato da molti e sul quale non è qui necessario esprimere giudizi, ma che ha spinto il fotogiornalismo “autoriale” a rendersi autonomo, a trasferirsi nell’editoria specializzata e nei circuiti dell’arte. Questa tendenza alla musealizzazione dell’opera dei grandi fotografi (che oggi trova spazio in numerose mostre e festival), ha accentuato la valenza iconica della loro produzione, li ha resi del tutto responsabili dei loro messaggi, ha fatto di alcuni di loro dei personaggi pubblici influenti, e in qualche modo ha incoraggiato l’estetizzazione della fotografia di reportage.

Allora la macchina comunicativa che Salgado mette in piedi alla conclusione di ogni progetto, diventa parte integrante di un disegno mirante a raggiungere un vasto pubblico e minare la sua indifferenza: il Movimiento Sem Terra, attivo nella lotta per la riforma agraria in Brasile, gli è grato ancora oggi per averlo reso noto a livello internazionale attraverso le sue toccanti fotografie di denuncia. A differenza di altri strumenti di comunicazione, la fotografia ha il potere di dare voce a realtà ignorate dai media di massa (come mostrano i progetti premiati nei concorsi World Press Photo), e anche a fenomeni invisibili ma urgenti come il riscaldamento climatico o il logoramento delle foreste amazzoniche. “Questa mostra – dice Salgado di Amazônia – è e deve essere un manifesto politico”: ogni immagine deve essere un manifesto, gridare la sua denuncia, e il grido è la bellezza assoluta dei bambini della foresta, o il controluce che illumina magicamente le immagini dall’interno: certo, una retorica, ma insieme una poetica.

Riferimenti bibliografici
P. Nair, Different Light: The Photography of Sebastião Salgado, Duke University Press, Durham 2012.
S. Salgado, Amazônia, a cura di Lélia Wanick Salgado, Taschen, Köln 2021.
S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, Mondadori, Milano 2003.

Sebastião Salgado. Amazônia, 1 ottobre 2021 –13 febbraio 2022.

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