In un celebre articolo del 1975 Pier Paolo Pasolini utilizzava la metafora della scomparsa delle lucciole per denunciare quello che definiva un “genocidio culturale”, una forma di fascismo di natura diversa da quello storico, che, sotto il manto rassicurante del benessere capitalistico, celava il rischio di omologazione e indifferenza. Proprio a partire dalle considerazioni di Pasolini, ma cercando di correggerne il tiro, nel 2009 George Didi-Huberman, in Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, traccia una cartografia delle sopravvivenze, provando a individuare quei lampi, quei bagliori, quelle schegge impazzite, quei corti circuiti dello status quo che resistono alla catastrofe. In altre parole, Didi-Huberman, in un dialogo costante con Benjamin e Agamben (con quest’ultimo a tratti criticamente), pensa che sia ancora possibile una forma d’esperienza in grado di scoraggiare il tramonto dell’esperienza tipica dell’età del nichilismo.
Schegge messianiche. Filosofia religione politica (Mimesis 2017), un volume collettaneo curato da Caterina Resta, può, forse, essere letto, sebbene a partire da orizzonti teorici per alcuni versi differenti, utilizzando la stessa chiave ermeneutica. Una sorta di dialogo inconsapevole che traccia una rete di rimandi fecondi. Innanzitutto il titolo: schegge e lucciole sono entrambe il nome di un rilucere intermittente, un balenare istantaneo, un evento inatteso nelle tenebre della catastrofe, nella “notte del mondo” – o, che è lo stesso, nell’ipertrofia della luce e dello splendore della tecnica e del capitalismo.
Un altro punto di tangenza dei due testi è un inatteso, almeno per quanto riguarda il volume collettaneo qui in esame, utilizzo delle immagini per dar conto della portata teoretica delle tesi sostenute. Entrambi i volumi si concludono, infatti, con l’immagine di un “povero cristo”, che rappresenta in maniera icastica, simbolica, lo spazio di resistenza, di sopravvivenza cui si allude nelle pagine precedenti. L’Ecce homo di Antonello da Messina, contenuto nel testo collettaneo curato da Resta, e il migrante del fotogramma tratto da Border 55 di Laura Waddington, posto nelle pagine finali del testo di Didi-Huberman, sono il nome dello Stesso [des Selben]. Sono lo spazio di un’umanità sofferente, di un’esposizione totale all’alterità, di una vulnerabilità che porta nelle stigmate della corporeità la propria caratura “politica”: «Immagini, dunque, per organizzare il nostro pessimismo. Immagini per protestare contro la gloria del regno e i suoi fasci di luce cruda» (Didi-Huberman 2004, p. 95).
Ricapitolando: i due volumi, partendo da prospettive differenti, si fanno portavoce dello stesso problema. Nell’epoca del nichilismo compiuto, del fascismo culturale, dell’omologazione politica, si dà ancora uno spazio, certo angusto e intermittente, attraverso cui pensare la chance per una redenzione; nella disperazione del presente si intravede la luce, il bagliore istantaneo, di quella “piccola porta messianica” nominata da Benjamin nelle sue Tesi sul concetto di storia per indicare il luogo, ma anche il tempo opportuno (kairós), per una possibilità altra per l’umanità. Possibilità che, in Benjamin, viene a coincidere con l’idea di felicità.
Proprio Benjamin, d’altronde, come potrebbe essere altrimenti, è uno degli autori di riferimento di Schegge messianiche. Se da un lato Pierandrea Amato mette in evidenza la caratura politica dell’opera benjaminiana, sottolineando come nella sua concezione altra del tempo sia celata ogni chance rivoluzionaria, dall’altro, Valentina Surace, approfondendo i temi contenuti nel cosiddetto Frammento teologico-politico, mette in risalto il carattere paolino del messianismo benjaminiano.
In questione nei due saggi è proprio il tentativo, pensato tramite l’opera di Benjamin, ma anche attraverso Nietzsche, Heidegger, Scholem, Taubes, solo per citarne alcuni, d’individuare un’altra esperienza del tempo. Si tratta di pensare un’effrazione del continuum del tempo storico e storicistico, del tempo della colpa e della sottomissione, liberandolo così dalla sua struttura edipica (Vattimo 1997), e consegnandolo all’istantaneità di un balenare inatteso, irruento, rivoltante e al contempo affrancante; in una parola: rivoluzionario.
Che in ogni rivoluzione sia in gioco il tentativo di proporre una visione altra del tempo è, come ricorda Benjamin, rappresentato in maniera paradigmatica da ciò che avviene nella rivoluzione di Parigi del 1830. I rivoltosi sparano agli orologi delle torri: ciò contro cui rivolgono la loro ira è il tempo scandito secondo il ritmo del potere. Come non ricordare, a questo punto, che il progetto rivoluzionario di V, protagonista del film distopico V per Vendetta (2005) di James Mcteigue, ha, d’altro canto, come suo momento culminante, come suo atto finale la distruzione della torre del Big Ben a Londra?
Se Benjamin costituisce il cardine attorno a cui ruota, a partire dal titolo stesso, il volume Schegge messianiche, un’altra colonna portante dell’impianto teorico del testo è senza dubbio Jacques Derrida, ed in particolar modo i suoi ultimi scritti in cui, in maniera frammentaria e “programmaticamente” disordinata, si delinea qualcosa come una politica a venire proprio a partire da una certa interpretazione del messianismo. Sempre Valentina Surace, in un corpo a corpo avvincente con i testi di Kant e Derrida, mette in evidenza come dalle pagine del filosofo franco-algerino, ma ebreo di origine, emerga un’idea di cosmopolitismo che prova a rispondere ai rapidi cambiamenti di un mondo che, di fronte al crollo di ogni confine, reagisce generalmente con contro-movimenti di carattere violentemente immunitario (e autoimmunitario). Come sottolinea Surace, il tentativo di Derrida è allora di proporre, al di là del cosmopolitismo di matrice giuridica pensato da Kant, una Nuova Internazionale che si faccia carico della richiesta – sempre impossibile eppure necessaria – di un’ospitalità incondizionata. Tale ospitalità assume nel lessico derridiano il nome di Giustizia.
Anche i testi di Caterina Resta contenuti nel volume sono attraversati in maniera trasversale dal pensiero di Derrida e da quella “passione dell’impossibile” che costituisce una delle cifre guida del suo pensiero. Proprio in questo contesto è sottolineata la portata messianica del pensiero derridiano; messianismo che, è bene sottolinearlo, assume una forma paradossale, aporetica, spinta al limite delle proprie “possibilità”, tanto che lo stesso Derrida parla di un “messianico senza messianismo”. Al di là di ogni pretenziosa aspettativa, che si dà esclusivamente nella logica “economica” del “ritorno”, l’a venire per Derrida ha il carattere del dono, di un’apertura non alla possibilità bensì allo spazio dell’impossibile, di una promessa che è tale perché può essere continuamente disattesa. Come evidenzia Resta, le pagine di Derrida sono attraversate, dunque, da una continua tensione tra la speranza e la disperazione dell’attesa; esse, speranza e attesa, lungi dal presentarsi in maniera distinta e separata, costituiscono un nesso inscindibile e restituiscono, al di là di ogni logica di potere, il carattere vulnerabile, catastrofico, in quanto continuamente esposto all’alterità, dell’umano. Ecce homo: il “povero Cristo”, senza corona e senza scettro, continuamente ed inesorabilmente abbandonato alla vulnerabilità della propria impotenza. Impotenza dell’uomo ma anche impotenza di Dio. È questa una delle tesi fondamentali del filosofo italiano, Sergio Quinzio, una delle “schegge” che s’incastona con la sua frammentarietà nel tessuto teorico del volume qui in esame.
Da un lato, Caterina Resta, scandagliando la relazione tra cristianesimo e messianismo e rilevando come quest’ultimo sia passato dall’essere il baricentro del cristianesimo delle origini ad aver assunto una posizione marginale nel suo sviluppo storico, individua nel pensiero di Quinzio uno dei luoghi teorici in cui la connessione tra i due rimane invariata ed emerge in tutta la sua urgenza: «È dunque alle sue riflessioni che attingeremo, per cercare di comprendere la parabola declinante del messianismo cristiano, del suo progressivo stemperarsi nella storia bimillenaria della chiesa, e la necessità, invece, di riguadagnare la prospettiva messianica» (Resta 2017, p. 150). Proprio attraverso il pensiero di Quinzio e la centralità dell’attesa messianica, si individua nel messianismo uno dei possibili luoghi di incontro e di mediazione delle tre religioni del libro.
Dall’altro lato, Rita Fulco, approfondendo i caratteri teologico-politici del pensiero di Quinzio, si interroga sulla possibilità d’individuare un legame tra il potere mondano e le promesse messianiche. In altre parole: qual è il ruolo che la chiesa assume all’interno del panorama cristiano e più specificatamente messianico? O meglio ancora: esiste un rapporto tra il potere mondano e le promesse messianiche? Per Quinzio la risposta è negativa, perché alla base del suo pensiero «vi è una radicale critica al concetto stesso di potere» (ivi, p. 82). Critica talmente radicale da mettere in questione, sulla scorta probabilmente anche delle riflessioni di Hans Jonas, il potere di Dio stesso.
Sono proprio questa mancanza di potere, questa impotenza ontologica, questo “non poter più potere” che accomunano uomo e Dio. Si tratta di quel movimento che, mutatis mutandis, nel pensiero di Simone Weil, è definito attraverso le espressioni “decentramento” e “decreazione”; come sottolinea Fulco, se quest’ultima ha una connotazione più squisitamente religiosa, il concetto di decentramento ha un’intrinseca valenza filosofica, rimandando al tentativo, tipico di una certa filosofia del Novecento, di pensare ad una possibile deposizione del soggetto della/dalla propria posizione sovrana e autarchica
A completare il volume Schegge messianiche è un corposo saggio di Sandro Gorgone sulla filosofia della religione di Bernhard Welte. Attraverso un serrato confronto con il pensiero di Nietzsche e di Heidegger, ma anche grazie all’approfondimento della cosiddetta teologia negativa e della mistica (in particolar modo delle riflessioni di Eckart), Gorgone ripercorre l’indagine del nichilismo compiuta da Welte. Il nichilismo per Welte, così come per il suo maestro e concittadino Heidegger, se indagato nelle sue pieghe più profonde non è “nulla di nichilistico”, costituendo anzi lo spazio attraverso cui si può dare un’esperienza post-metafisica del divino.
Com’è possibile evincere dall’analisi qui proposta, il volume Schegge messianiche ha un’andatura volutamente frammentaria e aporetica. Andatura che restituisce, in qualche modo, il contenuto del testo, il quale ha come suo filo conduttore un tema, il messianismo, che «in diverse forme e declinazioni, attraversa il pensiero del Novecento, sollecitando un’interrogazione filosofica ineludibile, che investe anche l’ambito della politica e della religione» (ivi, p. 11).
Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
G. Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, Bollati Boringhieri, Torino 2010.
C. Resta, a cura di, Schegge messianiche. Filosofia Religione Politica, Mimesis, Milano 2017.
G. Vattimo, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 2003.