Una domanda attraversa il nuovo testo del filosofo coreano Byung-Chul Han, Sano intrattenimento, pubblicato a settembre 2021 da Nottetempo: come pensare, nell’epoca della società della prestazione, della gamificazione della vita, l’intrattenimento? E, ancor più radicalmente, dove individuarne le radici?
Il testo si apre con un episodio dal carattere esemplare: l’esecuzione della Passione secondo Matteo di Bach nella Thomaskirche di Lipsia, nel Venerdì Santo del 1727, in presenza di un pubblico conquistato dai “giochi musicali” dell’opera, eppure scandalizzato. Questa musica in grado di “solleticare diabolicamente i sensi”, sembra avvicinarsi più alla Commedia o all’Opera borghese che al concerto sacro, minacciando di sommergere, con la sua “frivolezza”, la Parola, sul cui primato indiscusso si è istituita la cultura giudaico-cristiana e, con essa, l’amministrazione pastorale delle coscienze.
A partire da tale rievocazione scenica dell’evento, Han inaugura – pur con tutti i limiti che un tentativo di tale portata impone – una decostruzione della passione al cuore dell’Occidente (come recita il sottotitolo al testo). Nelle intermittenze della scrittura, nel moto ondulatorio e discontinuo di un pensiero in fieri, proprio la passione si rivela come altro complementare, persino fondativo, dell’intrattenimento.
Attraverso un movimento di ritorno al “sapore” inteso come radice fisico-sensibile del concetto di gusto, Han mostra per la prima volta, di scorcio, l’intimità che lega la passione a quell’intrattenimento che la modernità aveva escluso dal regime riconosciuto dell’Arte. La dolce levità di una musica puramente dilettevole si sovrappone, fino a confondersi, alla dolcezza della Croce, al corpo di Cristo come pietanza che offre se stessa, che si fa assaporare dai fedeli nell’intimità della coscienza, chiamata a fuggire l’imprevedibile moto dei corpi per deliziarsi delle «gioie celesti» (Han 2021a, p. 22).
Il legame, ambiguo e viscerale, tra passione e intrattenimento, balena nuovamente nell’intreccio tra morale e gusto nella filosofia kantiana. Erede non solo della tradizione illuminista, ma anche del cristianesimo, nella Critica del Giudizio (1790) Kant scinde la mera attrazione del piacevole, diretta solo al godimento, dal Bello, che implica un giudizio estetico puro. L’eccesso di quel “non so che” di cui “non si può rendere ragione” che costituisce l’oggetto del gusto (Agamben 2015, p. 24) viene teleologicamente catturato nell’orizzonte della moralità umana, mentre il piacere che deriva dall’intrattenimento rimane legato all’ambito sensoriale-affettivo, animale (Han 2021a, p. 93).
Il divertimento, il cui emblema è il riso, non sarebbe che una “vibrazione” corporea, un moto armonico degli organi in grado di promuovere la salute “che ci rende atti a tutte le nostre occupazioni”; il fare diviene la passione in virtù della quale il piacere stesso può essere messo al lavoro, iscritto in una via doloris che non rinuncia tuttavia alla felicità, ma la sublima in un’economia che ne sacrifica la contingenza (ivi, p. 96).
La passione, dunque, nel suo duplice movimento verso l’interiorità e verso il senso, non può scindersi radicalmente dall’intrattenimento, che le è funzionale. La medesima istanza narcisistica che rende indistinguibili i volti dell’homo doloris e dell’homo delectionis si declina oggi proprio nell’intrattenimento come totalizzante ubiquità che produce la realtà stessa come suo effetto (Han 2021a, pp. 11-12). Se l’homo doloris infatti ritrova persino nella rinuncia a sé ancora sé stesso (Han 2018, p. 33; Han 2021a, p. 124), l’homo delectionis, sprofondando nell’intrattenimento, finisce per riprodurre indefinitamente la propria immagine, pur mediata da una serie di negoziazioni complesse, come mostrano, oggi più che mai, le nuove frontiere della realtà virtuale immersiva. Attraversando per brevi flash alcuni luoghi nevralgici della filosofia e dell’arte occidentale, la domanda che ci siamo posti inizialmente si trasforma, quasi inavvertitamente, in un’altra: come immaginare un intrattenimento che sfugga alla viscosità narcisistica della passione che ne cattura l’originaria dimensione ludica, im-produttiva?
L’intrattenimento ha oramai esteso la sua presenza al punto che si potrebbe immaginare di costruire attorno ad esso un’area semantica in grado di inglobare ogni aspetto della vita – labotainment, allotainment, cognitainment, edutainment, infotainment (Han 2021a, pp. 144-147); un “amusement completamente emancipato” potrebbe allora configurarsi come un intrattenimento libero da tale semantica, una nuova arte cui mancherebbe sia “l’elevazione teologica dell’Arte” che “lo scatenamento teologico dello svago” (ivi, p. 135), e perciò incatturabile nell’ordine di senso della passione.
Nella musica di Rossini, scriveva Nietzsche ne La gaia scienza (1882), la levità della superficie si era librata sull’abisso mortuario del Romanticismo musicale tedesco, tanto che alla parola si sarebbe potuto sostituire un semplice “la-la-la-la”. Tuttavia, anche il diletto della pura melodia era riuscito solo a «lambire il vuoto» (Han 2021a, p. 27) prodotto dal progressivo svuotamento del significante Dio, sopravvissuto come funzione unificante di passione e piacere in direzione di una qualche forma di salvezza. Per immaginare un altro intrattenimento è quindi necessario radicalizzare tale svuotamento: l’eccesso del significante apparirà, allora, come un lussureggiare che devia dal senso senza volgersi nel suo opposto complementare, una “bella in-fondatezza” che, libera dalla profondità dell’io, risplende, al di là del bisogno e del desiderio.
Han ce ne lascia scorgere le tracce nella poesia – lussazione della lingua –, in particolare nella poesia giapponese. Se l’Occidente ha consacrato l’haiku ad emblema della profonda spiritualità nipponica, il filosofo coreano mostra invece le impensate implicazioni della sua natura popolare, sociale. L’haiku è infatti un componimento collettivo che dispiega l’originaria dimensione relazionale del linguaggio in un gioco condiviso di suoni e immagini atto a “rallegrare e intrattenere” (non a caso haikai significa “spirito faceto”), e irriducibile dunque al linguaggio privato di un’interiorità macerata; «i significanti divagano, lanciandosi in relazioni di vicinato senza far caso al significato» (Han 2021b, p. 86), si intrecciano secondo regole che scaturiscono da un’intesa, da un «concatenamento immanente di segni arbitrari» (ivi, p. 92).
Ciò che si gioca nell’haiku non è allora neppure il “sapere che non si sa e piacere che non gode” che sembra caratterizzare il gusto (Agamben 2015, pp. 22-34), ma quel Witz – definito dallo stesso Kant “lusso della mente” – che, acutamente, intreccia significanti fluttuanti che appaiono nella loro singolarità priva di intenzione, tra-dotti nell’«efflorescenza inessenziale» (Barthes 2007, p. 98) di vere e proprie composizioni visuali. È proprio in relazione all’immagine che l’analisi di Byung-Chul Han sembra promettere, oltre quanto teorizzato esplicitamente dal filosofo, degli sviluppi particolarmente interessanti.
Se gli haiku, secondo un’immagine proposta dalla dottrina Hua-Yen ricordata da Roland Barthes (ivi, pp. 92-93), somigliano ad un reticolo di gemme colorate in cui ciascuna ri-luce e abita il riflesso delle altre senza che sia possibile individuare un centro d’irradiazione, nelle xilografie dell’ukiyo-e – arte popolare e riproducibile – il colore riconsegna l’intrattenimento al puro gioco dell’apparire evanescente e variopinto del mondo.
Nelle immagini – prodotte in massa e vendute in quantità esponenziali – di saltimbanchi, attori di Kabuki (che significa, letteralmente, “vivere leggeri”), quartieri a luci rosse e vita erotica e commerciale del periodo Edo, l’intrattenimento si presenta come un’arte dell’immanenza: i colori brillanti e i contorni netti, privando l’immagine dello spessore (Han 2021a, p. 65), dissociano l’occhio dalla funzionalità della visione orientata, permettendo allo sguardo, attratto dai colori, di vagare nell’immagine senza cercare nulla, di mantenersi in superficie senza sprofondarvi. Poiché il vuoto è lo spazio di respiro dei colori (Han 2018, p. 57) – l’assenza che libera il visibile dalla pura presenzialità della sostanza – essi possono far risplendere la ricettività senza soggetto del mondo. Invalidando ogni raccoglimento o rispecchiamento narcisistico, ogni desiderio, tipicamente occidentale, di penetrare e possedere l’immagine, il colore ci lascia soggiornare «volta per volta» in essa come in uno specchio vuoto che lascia apparire il mondo nel suo esser-così, insalvabile e «leggero», abbandonato ad una finitezza senza passato né futuro, dimentica di sé, simile alla «comune banalità» di un «gioco di prestigio» (Dōgen 2013, p. 75). Questo trattener-si piacevole nell’immagine apre la dimensione di un disinvolto dimorare-senza-luogo che sottrae senza riserve l’abitare ad ogni oiko-nomia (Han 2018, pp. 100, 101).
Nella sua Metateoria dell’intrattenimento, in conclusione del volume, confrontandosi con studiosi come Joaquim Westerbarkey, Peter Vordeer, Niklas Luhmann, Han ribadisce l’origine arcaica dell’intrattenimento: la lira greca e i buffoni medievali sarebbero solo alcune delle sue manifestazioni antiche. Oggi, tuttavia, esso si assolutizza, configurandosi come un «ipersistema coestensivo del mondo» (Han 2021a, p. 147). La sua temporalità specifica (valida ancora nella scissione classica tra lavoro e tempo libero) diviene “cronica”, fino a coincidere con il tempo stesso, e la passione del fare di kantiana memoria vi sopravvive in forme inaspettate: persino il lavoro deve intrattenere. Se però, come abbiamo visto, è proprio nell’intrattenimento che può darsi una nuova esperienza an-economica del tempo e del mondo, la scommessa che il testo di Byung-Chul Han ci consegna è che sia possibile, ancora, udire proprio nel cuore di tale totalizzazione immersiva il dolce canto di Orfeo, in presenza del quale «Tantalo non prova più a bere, la ruota di Issione, mirabile a dirsi, si ferma. Gli uccelli smettono di divorare il fegato di Tizio, le Danaidi lasciano le brocche dove stanno, e Sisifo si siede fermo su una roccia: il lavoro riposa» (ivi, p. 48).
La liberazione, allora, potrà forse giungere, come una grazia sempre già accaduta, da un nuovo intrattenimento in grado di trasformare il significante vuoto “potere” nella vacuità di una melodia che abbia finalmente rinunciato alla passione, al desiderio, ad ogni possesso.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Gusto, Quodlibet, Macerata 2015.
R. Barthes, L’impero dei segni, Einaudi, Torino 2007.
E. Dōgen, Vuoto/Pieno. Il bue e il suo pastore. Una storia zen dall’antica Cina, Laterza, Roma-Bari 2013.
B.C. Han, La filosofia del buddhismo zen, Nottetempo Edizioni, Milano 2018.
Id., La scomparsa dei riti. Una topologia del presente, Nottetempo Edizioni, Milano 2021b.
A. Pinotti, Alla soglia dell’immagine. Da Narciso alla realtà virtuale, Einaudi, Torino 2021.
Byung-Chul Han, Sano intrattenimento. Una decostruzione della passione al cuore dell’Occidente, Nottetempo Edizioni, Milano 2021a.