Uno schermo rosso. Questo è il primo frame che appare agli occhi della spettatrice, monito del sangue invisibile che pervade tutta l’opera, monito della vergogna che la società impone a una donna che non si identifica con il ruolo di madre. Salve Maria di Mar Coll è stato presentato alla 77esima edizione del Locarno Film Festival e premiato dalla giuria universitaria nella sezione del concorso lungometraggi al MedFilm Festival.
Tratto dal romanzo Le Madri no di Katixa Agirre, l’opera racconta di Maria, una scrittrice diventata da poco madre. Costretta a confrontarsi con la nuova realtà della maternità – realtà troppo stretta, fatta di un appartamento piccolo e fatiscente, di un marito il cui congedo di paternità sembra non arrivare mai, di un figlio, Eric, che occupa tutto lo spazio fisico e mentale di cui la donna dispone – la protagonista resta affascinata da una storia di cronaca nera: una madre accusata di doppio infanticidio per aver annegato i suoi due gemelli. La notizia si presenta a Maria come stimolo per tornare a scrivere, ma muta rapidamente in un’ossessione per questa donna senza volto, di cui si conosce solo il nome: Alice. Messasi sulle sue tracce, la protagonista intraprende un viaggio, a tratti onirico e delirante, che la porterà a sprofondare sempre più vorticosamente in una spirale di allucinazioni e angoscia.
La narrazione è molto attenta a creare un’atmosfera visiva e sonora che restituisca tali sensazioni, attraverso soluzioni di regia e montaggio volte a marcare principalmente due elementi. Il primo è il sentimento di oppressione provato dalla protagonista. Tutti gli spazi narrati sono occupati dalla figura del bambino, dai suoi oggetti, dai suoi giochi, e quand’anche non è in campo come corpo, lo è come suono, come pianto imperterrito e assordante. Ma non è unicamente lo spazio esterno a essere pervaso da quest’incessante presenza di Eric, poiché anche il corpo stesso della protagonista diventa uno spazio abitato dalle conseguenze del parto. In particolare, il latte è la sostanza opprimente nel corpo di Maria, un costante e periodico ammonimento per il suo ruolo di madre e per la presenza del figlio.
Il secondo è il rigetto, letterale o metaforico, che assurge a paradigma dell’opera. Anche in questo caso, la figura del latte risulta centrale nella narrazione, poiché attraverso esso e sotto il segno del suo rigetto si connota sin dalla prima scena la relazione tra madre e figlio. Questa è solo una manifestazione di una vera e propria prassi strutturale del rigetto caratterizzante le relazioni tra i diversi personaggi, tra i personaggi e la società: Eric rigetta il latte materno, Alice rigetta il ruolo di madre, la società rigetta l’esistenza di donne che non accettano il ruolo di madri.
In virtù di quest’ultimo rifiuto, si rintraccia in Maria non solo il rigetto della maternità, che è appunto proprio di Alice, nonché il motivo fondante della discesa ossessiva della protagonista, ma un rifiuto interamente plasmato dal contesto sociale, cioè il rigetto del proprio rigetto della maternità.
C’è vergogna nell’inammissibilità di non voler essere madre, desiderio mai apertamente ammesso, almeno non nella dimensione del reale. Infatti, una prima forma di accettazione la vediamo mediata attraverso la scrittura, utilizzata come mezzo di esorcismo, pagine e pagine di un sogno macabro chiuso poi in cassaforte, lontano dallo sguardo fortemente giudicante del mondo. Una seconda e concreta accettazione è invece raggiunta, quasi seguendo la legge del contrappasso, nella sequenza più delirante e allucinatoria del film. Tra l’inseguimento di una Alice illusoria ed una Alice immaginata, Maria arriva in una piccola chiesa angusta, le mura ricoperte di creature (apparentemente) mostruose, in realtà nulla più che un bestiario medievale, comuni animali storpiati dalla fantasia degli artisti che non ne conoscevano le reali sembianze. Proprio una di queste creature, un umanoide senza volto dalle lunge corna bianche, fusa con gli inconfondibili capelli rossi propri di Alice, le apparirà nella stanza d’albergo, le dirà di scrivere. Una chimera creata dallo stato febbricitante di Maria; la forma che la società dà alle donne che rifiutano la maternità: esseri irriconoscibili e mostruosi.
Giocando con i generi del thriller e dell’horror, l’opera produce un’atmosfera grottesca generata dell’incongruenza tra lo sguardo dell’opera e quello giudicante del mondo. Il delirio e l’onirico diventano i luoghi adibiti all’espressione del sé, in quanto «fine ultimo della letteratura, liberare nel delirio […] una possibilità di vita» (Deleuze 1996). Soltanto l’immaginifico mondo della scrittura e dell’allucinazione permettono alla protagonista di superare questo rigetto, di arrivare all’accettazione del sé, pur rimanendo vincolata ad una società restia a fare lo stesso.
È in questa dicotomia – il raggiunto riconoscimento del sé contro la rinnovata esclusione dal mondo – che si radica l’impossibilità di trovare un finale. Maria stessa, diventando personaggio intercessore della regista, afferma di non avere una conclusione per il suo nuovo romanzo, esplicitando il cortocircuito dovuto alla mancata integrazione nella società. Difatti, se una narrazione libera i personaggi «quando porta questi ultimi al riconoscimento della reciprocità del loro desiderio e al coraggio per sapervi corrispondere, e dunque li rende disponibili a una nuova vita» (De Gaetano 2024), quest’opera sottolinea l’irraggiungibilità di tale disponibilità a causa del conflitto irrisolto con la società.
Restando intatto il grande ostacolo della norma d’esclusività dominante nel mondo, lo stesso ostacolo che ha portato in primo luogo Maria a raccogliere ossessivamente tutte le storie di donne accusate dell’omicidio dei figli, l’opera utilizza l’unico dispositivo possibile per presentare un finale felice: un ballo liberatorio, un immaginifico connubio con il mondo, che plasma e reinventa il presente in una atemporalità onirica, in cui la protagonista può trovare l’integrazione precedentemente negata.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Le immagini della commedia, Marsilio, Venezia, 2024.
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1996.
Salve Maria. Regia: Mar Coll; sceneggiatura: Mar Coll; fotografia: Nilo Zimmermann; montaggio: Aina Calleja; interpreti: Laura Weissmahr, Oriol Pla, Giannina Fruttero, Belén Cruz; produttori: Escándalo Films, Elastica Films; origine: Spagna; durata: 111′; anno: 2024.