Già dal titolo Romantiche (2023), opera prima di Pilar Fogliati – scritta (nonché interpretata) dalla stessa regista insieme a Giovanni Veronesi –, svela la sua natura polisemica e multi-prospettica, nascondendo al suo interno, come si può notare attuando un’intuitiva scomposizione, il toponimo della capitale (Roma-antiche): grazie a questo semplice gioco linguistico, la pellicola si presenta non solo come una delle tante commedie a tema amoroso che affollano il panorama mediale italiano mainstream, sia cinematografico che seriale (anzi, il tema amoroso sarà soltanto accennato), ma come un dispositivo che offre uno sguardo doppio sia sulle sue protagoniste femminili, che sugli spazi entro cui esse agiscono – spazi che appartengono tutti al mondo anch’esso multi-prospettico (e policentrico) della città di Roma, ma che sono collocati non solo diatopicamente, ma anche culturalmente e socialmente lontani l’uno dall’altro, come se appartenessero ad universi distinti.

Lo sguardo multi-prospettico non è tuttavia solo un leitmotiv del film (che peraltro di leitmotiv ne ha pochi, poiché imposta quattro storie sostanzialmente diverse tra loro), ma agisce sul piano strutturale grazie alla messa in atto della duplice (e contrapposta) prospettiva dei due sguardi che fungono da cerniera e cornice dei quattro episodi narrati: lo sguardo della psicoterapeuta analista, a cui si rivolgono le quattro versioni della Fogliati (protagoniste ciascuna di uno dei quattro episodi), che si incrocia con gli sguardi opposti delle pazienti in un sapiente gioco di campi-controcampi e fuori campi; lo sguardo di un anonimo utente che scorre la bacheca di Instagram, soffermandosi sui filmati (l’ultima frontiera audiovisiva del social) che attirano la sua attenzione (e che nient’altro saranno se non le quattro storie dei singoli episodi), che si scontra ovviamente con gli sguardi dei soggetti dei brevi corti, ignari del fatto che – in quel momento – qualcuno li sta guardando, per questo restano tutti interni al racconto.

Grazie a questi due stratagemmi stilistico-narrativi Fogliati riesce a rifunzionalizzare e a rivitalizzare il modello del film a episodi, che da Mario Monicelli e Dino Risi sino a Carlo Verdone e oltre caratterizza tutta la storia della commedia all’italiana, offrendo un modello (uno tra i tanti che affollano il cinema non solo italiano degli ultimissimi anni) di ri-mediazione nella forma-film delle logiche social.

È proprio la frammentarietà e la spontaneità dello scrolling verticale di Instagram che permette a storie separate tra loro di rimanere unite, questo nonostante l’unità spaziale non sia affatto cinematograficamente rimarcata attraverso il ricorso a geo-simboli urbani o a sequenze di contemplazione paesistica: la regista preferisce infatti raccontare, quasi pasolinianamente, una Roma tutta dal basso, attraverso – ancora una volta – lo sguardo dei suoi abitanti, sia nel caso di giovani rampolle del Parioli, che nel caso di studentesse emigrate nella capitale per frequentare l’università.

L’idea dello sguardo multi-prospettico si fa più complessa grazie alle metamorfosi subite dal corpo della Fogliati, che, alla maniera del primo Verdone (come è già stato notato), è al contempo una, nessuna e centomila: nella sua recitazione – forse tuttavia ancora un po’ acerba per una prova così complessa di policentricità – convergono infatti lo sguardo siciliano di Eugenia Patricò, aspirante sceneggiatrice che per inseguire il suo sogno abbandona Palermo; lo sguardo aristocratico dell’Uvetta dei Parioli, che nel mezzo di conversazioni in cui fantastica sui prossimi straordinari (anzi, “top” ) viaggi in giro per il mondo prova a lavorare soltanto perché è “fico” e perché è sempre stata brava “con le mani” (e quindi viene assunta – per soli cinque giorni – da un panettiere amico di famiglia); lo sguardo provinciale di Michela, la cui provenienza da Guidonia fa sì che non riesca a nascondere la patina fonetica romanesca, pronta per sposarsi con un uomo che la protegge, ma senza essere mai riuscita a dimenticare il suo passato (e i suoi amori giovanili); lo sguardo altezzoso di Tarzia, orgogliosamente romana, che dall’alto della sua Roma Nord, nonché dall’alto della sua condizione privilegiata (sociale ed economica), pensa di poter controllare ogni cosa, ma si ritroverà schiacciata dallo stesso partner verso cui aveva una fiducia cieca.

Dopo alcuni episodi fugaci in prodotti seriali o cinematografici mainstream, Fogliati aveva raggiunto il successo (e il grande pubblico) attraverso un video virale (oltre due milioni di visualizzazioni su YouTube, e tantissime altre nelle sue replicazioni) in cui imitava una serie di parlate romane: nel suo primo lungometraggio da regista tuttavia sceglie di evitare la soluzione più facile per garantirsi successo presso il pubblico, ossia la riproposizione grossolana delle varietà diatopiche nella modalità dello sketch (come invece hanno fatto molti comici nel passaggio da piccolo a grande schermo), ma le trasforma in varietà neanche più solo sociali (come erano già configurate nei “personaggi” del corto), ma di sguardi sul mondo: ne consegue un’attenzione non tanto al processo di costruzione dei quattro modelli femminili, ma più che altro alla loro decostruzione.

Le storie sono infatti tutte narrate (fatta eccezione in realtà per il primo episodio, che sembra avere un respiro più ampio) in medias res, senza preamboli, in modo che lo spettatore non colga il percorso di costruzione costitutiva delle singole identità, ma soltanto la loro decostruzione, attuata tramite incontri che sconvolgono i quattro equilibri, tanto da spingere ciascuna delle ragazze ad andare in terapia (la sincronia delle sequenze nello studio della dottoressa è sapientemente dosata con gli elementi dei flashback senza per questo rompere l’orizzonte di attesa dello spettatore).

Le decostruzioni attuate dalla Fogliati, pur dichiaratamente femminili, sono in realtà decostruzioni sociali: decostruzioni di illusioni che le strutture societarie hanno imposto alle singole identità, schiacciandole tutte indistintamente, indipendentemente dalla loro condizione economica; in questo modo la regista evita gli stereotipi della felicità di chi insegue i propri sogni, della paura di chi non ha la possibilità economica di realizzarli, o dell’ipocrisia di chi invece è benestante di famiglia.

I quattro io allora, per potersi salvare all’interno di un contesto societario a cui non riescono mai ad aderire – in linea con la tradizione del miglior Nanni Moretti –, possono reagire soltanto con il potere dello sguardo e della parola: così fa in particolare Eugenia nel piano-sequenza sfogo che chiude il primo episodio, in cui, tramite una carrellata all’indietro, rimarca il desiderio di inseguire il suo sogno di diventare sceneggiatrice, un sogno che riguarda – certamente non a caso – il lavoro creativo cinematografico, lavoro che permette di superare l’orizzontalità dell’esistenza, spingendosi nella verticalità della finzione.

Dalla retorica dello sguardo al rapporto con le alterità (sociali e territoriali), dagli elementi neorealistici (sorprende la ricostruzione del parlato giovanile, con i tanti “tipo” e “cioè”, che – seppur eccessiva nelle ridondanze – ne offre uno spaccato quanto mai autentico, e soprattutto non giudicante) all’intermedialità, Fogliati attua un’operazione sincretica in cui fa convergere molti degli elementi della nouvelle vague italiana del nuovo millennio, presentando il cinema del suo Romantiche come un medium che consente ancora, per sua natura, di restituire su un piano artistico e narrativo la complessità, il disorientamento e il bisogno di cercare saldi punti di riferimento che caratterizzano diverse generazioni di giovani italiani: aspetti su cui non è necessario porre alcun giudizio morale (come la regista sapientemente evita), ma soltanto offrire il proprio sguardo. Con la speranza che ogni singola identità, in cerca del proprio posto nel mondo, incontri lo sguardo di qualcun altro, e che questo sguardo si trasformi in azione salvifica che possa far uscire i singoli io dallo stato di torpore esistenziale.

Riferimenti bibliografici
L. Buffoni, a cura di, Romanzo popolare: narrazione, pubblico e storie del cinema italiano negli anni duemila, Marsilio, Venezia 2016.
R. Eugeni, La condizione postmediale: media, linguaggi, narrazioni, Scholé, Brescia 2022.
E. Ugenti, Immagini nella rete: ecosistemi mediali e cultura visuale, Mimesis, Milano-Udine 2016.
V. Zagarrio, Nouvelle vague italiana: il cinema italiano del nuovo millennio, Marsilio, Venezia 2021.

Romantiche. Regia: Pilar Fogliati; sceneggiatura: Pilar Fogliati, Giovanni Nasta, Giovanni Veronesi; fotografia: Davide Leone; montaggio: Davide Miele; musiche: Levante; interpreti: Pilar Fogliati, Barbara Bobulova, Levante, Diane Fleri, Giovanni Toscano, Ibrahim Keschk, Emanuele Propizio, Giovanni Anzaldo, Rodolfo Laganà; produzione: Indiana Production, Vision Distribution, in collaborazione con Sky, Prime Video, OGI film; distribuzione: Vision Distribution; origine: Italia; durata: 108’; anno: 2023.

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