Ogni uscita in live-action di un classico Disney ripresenta e rinnova quelle contrapposizioni tra apocalittici e integrati che, visto il costante allontanarsi dei due schieramenti, sembrano non riuscire a tracciare in nessun modo alcuna linea di sutura per colmare la distanza; di più: queste pellicole, già prima della loro uscita al cinema, grazie alla strategia crossmediale e seriale condotta dalla major alimentano una serie di discorsi che escono dal dominio testuale entrando in quello dell’opinione pubblica e del senso comune, andando ad influenzarli in modo significativo.
Nel caso de La sirenetta (2023) di Rob Marshall, il battage iniziato nel 2018 – ben cinque anni prima dell’uscita del film – ha generato sin da subito una serie di discorsi che hanno contrapposto i già schierati detrattori e sostenitori di tutta la macro-operazione live-action della Disney, aggiungendo però al novero del dibattito sia nuovi attori (soprattutto i fan storici del cartone del 1989) che inediti link discorsivi (come le discussioni sul colore dell’attrice protagonista), in modo da seminare diacronicamente, serialmente e transmedialmente quell’effetto wildeano del “purché se ne parli” (alimentato anche dalla continua e parcellizzata condivisione di segmenti e sequenze della pellicola in anteprima sui social) che, in qualche modo, può comunque giovare alla diffusione e al successo di un prodotto ad alto budget.
Per poter comprendere questo fenomeno soprattutto in relazione al live-action ambientato “in fondo al mar”, è necessario compiere un percorso analogo allargando il discorso ed andando oltre l’analisi filmica, per provare a cogliere le relazioni che la nuova rete di testi (che si genera a partire dalla realizzazione del film) intrattiene con l’immaginario di partenza, riformulato in primis dallo stesso istituto del live-action sul piano formale, espressivo e concettuale, e – soprattutto – con il nuovo orizzonte di comunanza del contemporaneo panorama mediale e socioculturale, osservando come esso venga, allo stesso tempo, forgiato da operazioni filmiche e mediali di questo genere.
La sirenetta, più ancora che altri live-action targati Disney, sembra giocare con il proprio pubblico tramite quella dialettica tra ripetizione e variazione che caratterizza la macro-serialità della major, lavorando in particolare su un effetto-riconfigurazione, particolarmente amplificato per via del ruolo di demarcazione svolto dalla pellicola del 1989 in molti processi identificativi legati alla casa di Topolino – si pensi alla stessa etichetta del Rinascimento Disney, inaugurata proprio negli anni ’80 con La sirenetta, o alla fortuna del franchise delle (nuove) Principesse Disney, di cui Ariel rappresenta un archetipo.
Tanto la pellicola è impressa nell’immaginario, quanto più le maglie tra ripetizione e variazione scatenano un effetto domino maggiore nei confronti del pubblico: così è avvenuto per il film di Marshall, che ha addirittura minato la specificità mediale del suo personaggio protagonista (replicante e transmediale) grazie alla scelta dell’attrice afroamericana Halle Bailey, condannata da molti (soprattutto sui social) per via delle enormi distanze rispetto al modello di Andersen e, soprattutto, rispetto alla codificazione disneyana degli anni ottanta, già molto tempo prima che essa potesse trovare (o meno) giustificazioni contestualizzabili all’interno della diegesi. Questa scelta ha fatto sì che lo spettatore medio provasse, nel suo orizzonte di attesa, un senso di straniamento dettato dal tradimento di un patto di fiducia in termini prima di tutto visivi e iconici, e poi anche culturali, dal momento che il colore della pelle dell’attrice ha portato con sé una serie di sostrati discorsivi non soltanto diegetici, ma profondamente sociali.
Per fare in modo che si stabilisse una relazione empatica tra la nuova replicazione del personaggio di Ariel e il pubblico, la major ha investito in una campagna transmediale senza precedenti (almeno rispetto agli altri live-action), che ha avuto una forte eco a livello internazionale sui social (si pensi all’effetto mermaidcore, che si è attestato già nel 2022 su TikTok come tendenza, e nel 2023 ha superato i 220 milioni di visualizzazioni spingendo tantissimi utenti ad atteggiarsi e a vestirsi come la sirenetta) coinvolgendo svariati elementi testuali, dai post sui blog dedicati al cinema o al mondo nerd fino alle espansioni transmediali più complesse, come la partnership con McDonald’s, nel nuovo Happy Meal (suggellata anche dal rapporto con la Black Girls Surf, per stimolare ulteriori forme di empatia con la nuova protagonista), e con le linee beauty e i brand di make-up sia statunitensi che italiani e di molti altri paesi (Ulta, Kiko Milano, Sephora, Artdeco e molti altri); espansioni che, muovendosi proprio dalla dimensione visiva del personaggio protagonista (in ambiti in cui a dominare sono proprio gli elementi visuali), hanno agito come sedimentatori culturali della nuova metamorfosi iconico-visiva di Ariel, la quale, nel voler intercettare le nuove tendenze di inclusività, e nel cercare di veicolare un orizzonte più global che local, ha intaccato nel profondo un’immagine ben impressa in molte generazioni.
La scelta dell’attrice protagonista, però, è soltanto uno dei tanti espedienti a cui ha ricorso la Disney per ri-negoziare l’immaginario di partenza, per poi risemantizzarlo in modo da renderlo, almeno negli intenti, più aderente al contesto socioculturale del presente. A livello diegetico, gli elementi di riformulazione sono passati: dalle nuove versioni dei testi delle canzoni, riformulati sia in lingua originale che negli adattamenti in italiano (anche se in punti diversi), per esempio inserendo l’elemento del consenso nella sequenza del bacio con il principe Eric («e tu lo sai che vorresti darle un bacio» / «e io lo so che vorreste darvi un bacio»; «Possible she wants you too» / «Use your words and ask her», Baciala, Kiss the girl), rafforzato anche dalla cesura della firma del contratto con Ursula; dai costumi, laddove le sorelle di Ariel rappresentano – tramite etnie e abiti – tutti i mari del mondo che si ritrovano in un unico grande oceano (il termine ha molte più occorrenze rispetto a mare nell’originale); dal nuovo sottotesto ambientale (anche se appena abbozzato), e infine da una nuova e specifica caratterizzazione topologica che giustifica diegeticamente la scelta della protagonista e degli altri comprimari (dal mare del Nord al mare dei Caraibi).
Da queste modifiche emerge un consapevole processo di decostruzione iconica e concettuale dell’immaginario di partenza, del quale vengono mantenuti soltanto alcuni elementi identificativi a livello sia narrativo che visivo (il comparto dei personaggi, oppure alcune sequenze particolarmente note, come quella di Ariel nella sua wunderkammer sulle note del brano Parte del mio mondo, ricreata frame per frame), pur rifunzionalizzati e risemantizzati per assecondare nuove esigenze sia formali (il ridimensionamento di Scuttle e Flounder appare dettato dal ridurre – per quanto possibile – le alterazioni della sospensione dell’incredulità, in linea con l’effetto di realismo documentario già attestato nella computer graphic de Il re leone, Jon Favreau, 2019) che sociali (l’equilibrio tra le sequenze marine e quelle terrestri asseconda la back history più umana del principe Eric, oltre che evitare un eccesso di sequenze fotorealistiche in fondo al mare).
Il film sostiene così un processo di meta(media)morfosi dell’immaginario marino, culturale, sociale e antropomorfico del mondo della Sirenetta, supportato da un worldbuilding che si pone l’obiettivo di intercettare – grazie alle sue implicazioni narrative, formali, iconico-visive ed estetiche – un nuovo senso comune.
Come ha recentemente notato Annamaria Lorusso (2022), però, il senso comune non è mai né universale né asettico, ma è sempre interpretativo, regolativo-normativo e identitario, e rappresenta un problema sia semiotico che culturologico: La sirenetta si pone proprio al crocevia di questo «problema», optando per una soluzione ibrida che da un lato sembra aver scontentato il fandom della prima ora, ma dall’altro si è posta l’intento di forgiare – sul lungo periodo – un nuovo mito per il pubblico contemporaneo, dal momento che, in effetti, la nuova Ariel e il suo mondo risultano – come ogni personaggio replicante transmediale – specchio della società che li hanno prodotti (Casoli 2020, p. 73), così come era peraltro accaduto già nel primo adattamento disneyano della fiaba di Andersen.
L’operazione di ri-negoziazione appare però riuscita solo a metà, soprattutto per via di un permanere – nelle sale e nel web – di quella fetta di pubblico che conosce il cartone del 1989, con cui è cresciuto e con cui ha stabilito una relazione empatico-affettiva a diversi livelli, che sembra comprendere a fatica le necessità di questa nuova riformulazione (oltre che quelle meramente commerciali)
Diventa difficile, oggi, ipotizzare quanto questa nuova Sirenetta sarà capace di sostituire il modello di partenza sul lungo periodo: quello che appare evidente, invece, è la forza di resilienza e di resistenza che possiedono (almeno in Occidente) determinati immaginari (come quello disneyano degli anni ottanta-novanta, e non solo), i quali – pur nel loro apparire talvolta cronologicamente e sociologicamente fuori contesto – mantengono una grande forza attrattiva nei confronti di un pubblico che, però, sembra essere dotato degli strumenti culturali per discernere i messaggi comunicativi dei prodotti originali, fruendoli in un modo nuovo anche senza che essi subiscano ulteriori adattamenti.
Riferimenti bibliografici
A. Appadurai, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione, Roma, Meltemi 2001.
S. Casoli, Le forme del personaggio: figure dell’immaginario nella serialità televisiva americana contemporanea, Milano-Udine, Mimesis 2021.
U. Eco, Apocalittici e integrati, Milano, Bompiani 1964.
A. M. Lorusso, L’utilità del senso comune, Bologna, Il Mulino 2022.
G. Pescatore, a cura di, Ecosistemi narrativi. Dal fumetto alla serie TV, Roma, Carocci 2018.
La sirenetta. Regia: Rob Marshall; sceneggiatura: David Magee; fotografia: Dion Beebe; montaggio: Wyatt Smith; musiche: Alan Menken, Howard Ashman; interpreti: Halle Bailey, Jonah Hauer-King, Melissa McCarthy, Javier Bardmen; produzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; distribuzione: Walt Disney Studios Motion Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 135′; anno: 2023.