Quando nel 1954 i giovani critici dei Cahiers du cinéma riscoprono l’America, coniando la definizione di autore, sanciscono al tempo stesso la nascita della critica moderna, basata sull’idea di forma e messa in scena: «Il pensiero di un cineasta prende forma cinematografica attraverso la messa in scena ed è questo “pensiero che prende forma/forma che pensa” che costituisce l’assoluta bellezza del film» scriverà nel 1998 Alain Bergala, citando Godard nel saggio Peut-on apprendre à voir. Uno dei nomi attorno a cui ruota questa teoria è quello di Alfred Hitchcock.
Rohmer, Chabrol e Truffaut gli dedicano saggi e articoli, rivelandolo al mondo non solo come abile tessitore di mysteries, bensì come creatore di forme. Ma se il debito di Truffaut e (soprattutto) di Chabrol nei confronti del maestro inglese è sempre stato lampante, quello di Eric Rohmer, autore di un cinema in apparenza molto lontano dai plot hitchcockiani, rimane più sottotraccia, sebbene altrettanto fondamentale.
Ma, anche solo a livello epidermico, è poi effettivamente così lontano? Anche gli intrecci rohmeriani vivono di piccoli intrighi, che suscitano la curiosità dello spettatore: non si tratta di storie poliziesche in senso stretto ma quasi tutte abbondano di sotterfugi, escamotage, scambi di persona: si va dal “giallo” della collana di Racconto di primavera (1989) al lungo pedinamento de La moglie dell’aviatore (1980). E, al tempo stesso, l’hasard, il Caso, tema portante del cinema rohmeriano, non si ritrova già in molti dei plot hitchcockiani, dal “miracolo” della sovraimpressione ne Il ladro (1956) al secondo incontro tra Scottie e Madeleine/Judy ne La donna che visse due volte (1958) fino alla momentanea immobilità del fotoreporter che scatena la pulsione scopica e gli eventi de La finestra sul cortile (1954)?
È proprio quest’ultimo film per gli allora giovani critici Rohmer e Chabrol a rivelarsi come figura madre del cinema hitchcockiano:
Se c’è un film di Hitchcock per il quale il termine metafisica può essere citato senza timore, ebbene questo è proprio “Rear Window”. Eppure non si tratta solo di un’opera riflessiva, critica nel senso kantiano dell’espressione. Questa teoria dello spettacolo implica una teoria dello spazio; questa teoria dello spazio implica un’idea morale che da essa derivi necessariamente, apoditticamente, come si dice in filosofia. Con un tratto magistrale, Hitchcock ha disegnato qui la struttura chiave di tutta la sua opera e, forse, non c’è uno solo dei suoi diagrammi che non siano dei corollari, dei casi particolari di questa “figura madre” (Rohmer, Chabrol 1986, pp. 113-114).
E ancora: «L’idea pura di Spazio, di Tempo o di Desiderio precede l’esistenza e la forma» (ibidem).
Appare allora più chiaro come la lezione hitchcockiana venga assimilata dal cinema di Rohmer a un livello più profondo: quello di una forma ideale da cui scaturisce la mise en scène. È quanto accade, con una buona dose di ironia, a livello narrativo, ne Il bel matrimonio (1982) in cui la giovane Beatrice Romand – che nel cinema di Rohmer dà sempre il volto ai personaggi femminili più volitivi e caparbi – inverte la normale prassi partendo dal principio astratto del matrimonio per avviare la ricerca del mezzo (un partner!) che le permetta di raggiungere lo scopo.
La profonda fascinazione del Rohmer critico per i cineasti creatori di forme e di universi ideali – oltre a Hitchcock ricoprono un ruolo fondamentale nella definizione della sua estetica anche Murnau e Ejzenštejn – si traduce all’atto pratico in un sistematico rifiuto del sociologico, del comportamentale, per abbracciare l’idealismo tedesco, con una fitta galleria di protagonisti che sentono il dovere morale di conformare il mondo a un principio ideale. Come la Jeanne di Racconto di primavera, Rohmer non approva «quelli che per renderla accettabile [la filosofia] si servono di stupidaggini come i luoghi comuni dei giornali, la psicanalisi o le scienze sociali. No. Io l’affronto di petto, fino in fondo».
Questo però non significa rinunciare al piacere dell’affabulazione e, anzi, in Rohmer l’assunto filosofico va sempre di pari passo con una leggerezza, un rilassamento o “délassement” per dirla con l’Alain Bergala di Retour à Stromboli (in Cahiers du cinéma n. 387, settembre 1986) che rimarranno una delle costanti e delle cifre stilistiche del suo cinema. Ed è infatti nei suoi film estivi, balneari che, come nel cinema hitchcockiano, «l’immobilità si trasforma nella più emozionante delle avventure» (Rohmer, Chabrol 2002).
Nei film di Rohmer l’attesa di James Stewart ne La finestra sul cortile si duplica e si dipana lungo decine di intrecci, di storie, su altrettante finestre-mondi, da quelle del Jérôme de Il ginocchio di Claire (1970) alla Delphine de Il raggio verde (1986) o ancora al Gaspard di Un ragazzo tre ragazze (1996). In particolare, è il protagonista del quinto Racconto Morale ad apparire una versione aggiornata di Jeffries, per cui «la passione di sapere, o più esattamente di vedere, finirà per soffocare nel reporter qualsiasi altro sentimento […]» (Rohmer, Chabrol 2002).
Nella loro lettura del testo-chiave hitchcockiano, Rohmer e Chabrol notano come i mondi chiusi spiati da Jeffries «siano soltanto una proiezione del pensiero – o del desiderio – del voyeur: in esse, non potrà scoprire altro se non quel che vi ha messo, quello che spera o attende» (Rohmer, Chabrol 2002).
Una descrizione che corrisponde perfettamente a quella del personaggio interpretato da Jean-Claude Brialy: inizialmente deciso a trascorrere un tranquillo soggiorno solitario nelle settimane che lo separano dal matrimonio, viene sollecitato dall’amica scrittrice Aurora a fare la corte alle figlie adolescenti della vicina dalla bella casa sul lago di Annecy. E, solleticato dalla noia dell’inattività, a poco a poco Jérôme da passivo oggetto di attenzioni della giovane Laura si lascia prendere dal gioco fino a diventare osservatore e poi attore degli eventi, almeno fino a quando nel finale, un’altra finestra sul cortile, quella a cui è affacciata la scrittrice Aurora, non ne svela il ruolo di pedina narrativa all’interno di un intreccio più grande, mostrando un finale alternativo a quello architettato dall’uomo.
In uno dei testi rohmeriani dal carattere più smaccatamente letterario emerge, però, la necessità di un punto esterno, tangibile, attorno al quale dare corpo a questi pensieri, ai ragionamenti, alla sfera dell’ideale. In realtà Rohmer sembra porsi il problema già dal primo Racconto Morale, La fornaia di Monceau (1962), con l’esattezza delle descrizioni dei tragitti parigini compiuti dal protagonista durante le pause studio: appiglio reale al flusso di coscienza ininterrotto del giovane. Ma è ne Il ginocchio di Claire che l’idea viene formulata per bocca di Aurora:
Mi ricorda una vecchia storia che volevo scrivere e non so più come finire. C’era un signore di una certa età, trentacinque-quarant’anni, […] che guarda giocare le ragazzine e di giorno in giorno si fa delle idee. Un giorno la palla cade nel suo giardino. Lui la prende e la mette in tasca e quando le ragazzine arrivano fa finta di cercarla tra le ortiche e quando se ne vanno va a rilanciare la palla […] Così le ragazze si incuriosiscono, lui si diverte a rifare questo giochino tre o quattro volte e dopo questa bambinata si lascia trascinare sulla china della follia più totale. Che ne pensi della storia? Come potrei finire? (Zappoli, Rohmer 1998, p. 53).
Prolessi degli eventi narrati nel film, l’inserto metatestuale conferma i punti di contatto con l’Hitchcock de La finestra sul cortile (voyeurismo, desiderio, ossessione) e al contempo teorizza un ruolo dell’oggetto che, in Rohmer, diventa al tempo stesso pretesto narrativo, segno e simbolo. La pallina da tennis non è ancora qui un oggetto reale, ma esiste nel flusso creativo della scrittrice, ponendosi a metà tra il mondo fisico e quello del pensiero, come quella invisibile del finale di Blow Up (1966) di Antonioni.
Nella dicotomia hitchcockiana degli oggetti, tra il simbolo rappresentato dal quadro di Blackmail (1929), con il pagliaccio che sogghigna “accusando” la protagonista per il delitto compiuto, e la bottiglia di uranio di Notorious (1946), MacGuffin per eccellenza, Rohmer opera una sintesi, facendo spesso coesistere l’aspetto simbolico e quello narrativo delle cose.
Pensiamo ai due vasi de La collezionista (1967) e de Il bel matrimonio: nel primo caso, rispetto agli eventi narrati, il vaso è sia il punto di partenza – il protagonista Adrien sceglie di andare a Saint Tropez, nella casa offertagli dall’amico Rodolphe, proprio per piazzare un pezzo di valore a un collezionista d’arte – sia d’arrivo: la sua accidentale rottura ad opera di Haydée sarà l’acme drammatico di un film altrimenti composto di non-eventi.
Ma, al tempo stesso, le vase de Chine, titolo del racconto da cui il film è trasposto, simboleggia la bellezza di Haydée, egualmente “venduta” come un pezzo d’arte al collezionista e frammentata, misurata nel prologo dalla macchina da presa rohmeriana come una statua classica, unico vertice del triangolo privato della parola.
In modo analogo, nel Il bel matrimonio, la porcellana del Jersey ricercata da André Dussollier è il pretesto per l’intraprendente Beatrice Romand per ricontattare l’uomo e farsi intermediaria di una compravendita che le causerà il licenziamento, ma simboleggia anche il totale disinteresse e disprezzo di Sabine, laureanda in Storia dell’arte, per tutto ciò che è commercio, direttamente proporzionale al bisogno di incanalare il suo impulso creativo in qualcosa di utile: di nuovo, l’idea precede l’azione. Persi nella sfera dell’ideale, i personaggi di Rohmer sembrano aver bisogno di trovare negli oggetti del quotidiano qualcosa che li riconnetta alla realtà: sono MacGuffin emozionali, come il maglione tolto per metà riflesso nello specchio ne L’amore il pomeriggio (1972), che rammenta a Fréderic un’intimità domestica che lo farà resistere al fascino del non-conosciuto.
Per il suo carattere dichiaratamente quotidiano, il ciclo Commedie e proverbi è quello in cui Rohmer dissemina maggiormente i suoi MacGuffin. Fotografie, carte da gioco, utensili vari: gli oggetti mettono in moto i desideri e le mancanze dei personaggi, o si fanno metonimia dei personaggi stessi e degli ambienti: così la teiera che Louise, inquieta protagonista de Le notti della luna piena (1984), vede per caso nella vetrina di una boutique parigina attiva in lei la nostalgia per l’appartamento di Marne la Vallée, in cui vive con il compagno Rémy. Nel film, basato sul proverbio immaginario, creato ad hoc da Rohmer, «Qui a deux femmes perds son âme / Qui a deux maisons perds sa raison» (Chi ha due donne perde l’anima / Chi ha due case perde la ragione) la teiera, che la ragazza riacquisterà in sostituzione di quella rotta, sta all’intera abitazione, come, procedendo su scala, il piccolo studio e l’appartamento di Rémy stanno, rispettivamente, a Parigi e alle nuove città satellite degli anni ottanta.
Ma è in uno degli ultimi film che Rohmer alza la posta: in Triple Agent (2004), ispirato all’affaire Miller-Skboline, assistiamo narrativamente a una sorta di split screen: da un lato il romanzo della protagonista, al cui sguardo il film aderisce totalmente; dall’altro la spy story invisibile, di cui arrivano solo echi lontani, come quelli del furore giacobino che penetrava a forza nel boudoir de La nobildonna e il duca (2001). Lungi dal cercare un pretesto narrativo in un unico oggetto – solo la cartolina di incerta localizzazione (Lisbona o Berlino?) assolve a questa funzione – Rohmer fa di tutta la spy story un gigantesco MacGuffin: il cuore del film è altrove, nei quadri dipinti da questa nuova, ultima eroina, brulicanti di volti, corpi e storie, mentre i vicini, rappresentanti del gusto della classe intellettuale francese anni trenta, gli preferiscono l’astrattismo di Picasso.
“C’est mon Vertigo”, asseriva tra il serio e il faceto Rohmer alla sua produttrice Françoise Etchegaray, durante la lettura della sceneggiatura. È lei a raccontare l’aneddoto nel suo libro di recente pubblicazione in Francia Contes des mille et un Rohmer (2020) e a rivelare la delusione del cineasta nel constatare lo scarso successo del film, che riteneva davvero il suo personale Vertigo. E Triple agent ha realmente in comune con il capolavoro hitchcockiano il détournement dello spettatore, la falsa pista per cui tutta la vicenda non è che il pretesto per raccontare l’ossessione di un uomo per una donna morta. Il potenziale soggetto dell’Hitchcock spionistico, con il falso colpevole, l’innocente che deve discolparsi, viene soltanto lambito per poi essere lasciato fuori campo: nemmeno la Storia riuscirà a stabilire la colpevolezza o l’innocenza di Fiodor ma quel che è certo è che la pittrice Arsinoé non è affatto la donna del ritratto Madeleine.
Alla pura forma hitchcockiana, abilmente descritta nella recensione di Vertigo sul n.93 dei Cahiers nel 1959 – «Idee e forme seguono la stessa strada ed è perché la forma è pura, bella, rigorosa, sorprendentemente ricca e libera che possiamo dire che i film di Hitchcock, e Vertigo al primo posto, hanno per oggetto le Idee, nel senso nobile, platonico, del termine» – qui Rohmer sostituisce il figurativo, la materia dei ritratti di Arsinoé, mancando l’allineamento con il modello. Ma nel suo cinema abituale, fatto di cerchi, i girotondi sentimentali, e linee, le traiettorie solitarie dei suoi protagonisti, lì le forme hithcockiane hanno trovato un diverso e personalissimo impiego.
Riferimenti bibliografici
A. Bergala, Rétour à Stromboli, in “Cahiers du cinéma” n. 387, 1986, pp. 23-25.
P. Bonitzer, Le dernier venu, in “Cahiers du cinéma” n. 387, 1986, pp. 30-32.
A. De Baeque, Peut-on apprendre à voir?, in “Cahiers du cinéma” numéro hors série (1998), pp. 30-31.
F. Etchegaray, Contes des mille et un Rohmer, Exils, Paris 2020.
E. Rohmer, C. Chabrol, Hitchcock, a cura di A. Costa , Marsilio, IV edizione, Venezia 2002.
E. Rohmer, Le goût de la beauté, Petite bibliothèque des Cahiers du cinéma, Paris 2004.
M. Serceau, Eric Rohmer. Les jeux de l’amour du hasard et du discours, Editions du Cerf, Paris 2000.
G. Zappoli, Eric Rohmer, Il Castoro, Milano 1998.
Eric Rohmer, Tulle 1920-Parigi 2010.