Cecilia Mangini se n’è andata il 21 gennaio 2021, nel giorno del centenario della fondazione del Partito Comunista Italiano. Non so perché, ma a me questa sembra molto più che una semplice coincidenza, o almeno mi piace vederla così. Certo è che la storia di Cecilia, antifascista e regista pioniera del documentario, in un mondo fatto all’epoca quasi esclusivamente di uomini, si intreccia almeno in parte, e in modo non sempre lineare, con quella del PCI. Di Essere donne (1964) – il documentario commissionatole proprio dal partito, per affrontare una delle questioni sociali più urgenti, in questo caso specifico il rapporto complicato fra le donne e il lavoro – Cecilia Mangini parlava, per esempio, come di uno dei film a cui è rimasta più legata, nel corso degli anni. Forse perché Essere donne è, con tutta evidenza, un percorso collettivo, ma allo stesso tempo personale, all’interno della fabbrica e dentro sé stessa, così come la storia del PCI è stata la storia di milioni di persone, ciascuna con i propri bisogni, e quella di una collettività, più o meno coerente al suo interno.
Ugualmente, ci sono mille modi di essere donna, e contemporaneamente uno solo: ché senza libertà, anzitutto economica, non si può essere indipendenti dal potere patriarcale e maschile. Libera Cecilia lo è stata, per esempio, dando voce e forma (cinematografica) a un femminismo tutto suo, radicato non tanto nella semplice appartenenza a un genere, quanto piuttosto nella possibilità di esprimere, senza compromessi, un punto di vista e un talento propri. L’essere donna è una condizione inventata, sognata, raggiunta, più che assegnata alla nascita.
Ma libera Cecilia lo è stata anche pensandosi sempre come una comunista eterodossa, inventando pure in questo caso il suo modo di stare, né dentro, né fuori dal Partito. Per chiunque come lei si occupasse di cinema a vario titolo, negli anni cinquanta, la scelta di non rispondere a una scuola o a una corrente corrispondeva con il voler mettere in discussione i principi formali di un vero e proprio canone stilistico allora egemonico, noto come “realismo socialista”, che considerava il cinema come uno strumento di rispecchiamento (per quanto distorcente) della realtà. Significava contribuire a inventare quello che oggi chiamiamo, non senza qualche fraintendimento, “cinema del reale” e che Cecilia aveva nella mente e negli occhi già prima di scegliere di diventare regista lei stessa, quando cioè di cinema si occupava da critica, frequentando la redazione di “Cinema Nuovo”. Della sua passione critica (altro modo di dar voce all’esercizio di un pensiero instancabile), che attraversa più tardi anche i lavori da regista e sceneggiatrice, abbiamo parlato in molte occasioni, l’ultima non più di qualche anno fa, in occasione di una giornata di studi alla Sapienza, dedicata ai cento anni, in questo caso di Guido Aristarco.
Ogni immagine evocata da Cecilia quando parla di sé e del suo lavoro è testimone di questa libertà, che per essere davvero tale non può che essere pure, in qualche caso, irriverente. Il documentario è la forma più libera di cinema – amava ripeterlo Cecilia – e per questo lo sceglie, già alla fine degli anni cinquanta, quando gira il primo dei tre film realizzati con la collaborazione di Pier Paolo Pasolini, Ignoti alla città (1958), seguito da Stendalì (1960) e Il canto delle marane (1962). Tre lavori, ciascuno a modo proprio irriverente, non solo perché mostrano, senza alcuna compassione, coloro che vivono ai margini di una grande città come Roma o quelli che rimangono esclusi, più o meno volontariamente, dal desiderio dello sviluppo economico e culturale, tutto illusorio, dell’Italia di quegli anni. Quelli, come gli altri film di Cecilia Mangini, irriverenti lo sono perché sovvertono, in maniera addirittura rivoluzionaria, l’idea che il documentario dovesse essere un racconto neutrale, il più possibile aderente alla realtà. L’uso del colore e di una voce narrante poetica (affidata ai versi di Pasolini), più che semplicemente descrittiva; la costruzione formale delle inquadrature; il compito espressivo, diverso dal puro accompagnamento, affidato alle musiche di Egisto Macchi, tingono già i primi lavori di Cecilia Mangini di un dichiarato anti-naturalismo e li avvicinano a quelli di un altro grande maestro del documentario, Vittorio De Seta, che proprio in quegli anni lavorava a un rinnovamento del mezzo, più o meno con le stesse strategie compositive.
Stendalì è senz’altro fra i tre film quello di ispirazione demartiniana più riconoscibile, eppure è così distante da ogni pretesa di oggettività del documentarismo etnografico, da essere allora profondamente criticato dagli antropologi di professione. Cecilia chiede alle sue donne di recitare, di piangere non per un vero morto, ma di fare come se lo fosse, di rimettere in scena (in maniera che suona quasi sacrilega) il rito. È per questa strada che quello che sembra in prima istanza un tradimento della realtà diventa, al contrario, il luogo e l’occasione del suo più autentico inveramento.
Raccontare la realtà non significa rappresentarla così come essa semplicemente appare, ma al contrario assumere l’insufficienza di quella apparenza. Il cinema di Cecilia Mangini mostra che in ciò che definiamo reale non c’è nulla di necessario, né di già dato, che insomma realizzare un documentario non significa corrispondere a un genere; proprio come l’essere donne e registe libere significa in qualche modo essere infedeli, nei confronti di ciò che già si conosce o addirittura di quello che si aspetta che accada. Significa lasciarsi stupire, rapire forse, dall’inaspettato.
Nei racconti di Cecilia, comincia così la sua carriera artistica, di fotografa, ancora prima che di regista, da un imprevisto. Comincia a Panarea e poi a Lipari, comincia con un traghetto perso, la permanenza forzata sull’isola e la scoperta delle cave di pietra pomice, dove realizza i suoi primi scatti, che mostrano il volto più antropomorfizzato di un’isola allora ancora quasi totalmente selvaggia, simile forse ai visi, solcati dal vento e dal sole, dei lavoratori della cava. È il 1952 e Cecilia ha appena 25 anni, ma quella serie giovanile di scatti contiene già in sé l’anima più sincera del lavoro della fotografa e della regista.
Ciascuna delle sue immagini, allora come poi, è il frutto di un viaggio e degli incontri inaspettati che ne vengono fuori, come racconta bene un film di qualche anno fa, girato insieme a Mariangela Barbanente, In viaggio con Cecilia (2013). Rotte vicine e lontane, verso la periferia di Roma, verso il sud Italia, o più tardi il Vietnam, dove Cecilia Mangini e Lino Del Fra arrivano, in piena guerra, per girare un film che non si realizzerà mai, viste le condizioni complicatissime in cui i due si ritrovano a girare. Di quel viaggio rimangono però molti scatti, alcuni dei quali per anni mai sviluppati: ritrovati nel fondo di un cassetto e della memoria (giusto in tempo per non finire dimenticati per sempre), diventano un film emozionante e struggente, grazie all’aiuto prezioso di Paolo Pisanelli, compagno di lavoro e di viaggio costante, negli ultimi anni di vita di Cecilia: Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam (2020).
Certamente è quello con il marito Lino Del Fra l’incontro più importante della vita di Cecilia Mangini. È con lui che condivide molta parte della sua carriera di regista e sceneggiatrice, ma forse di più condivide un modo di vedere e stare al mondo. All’armi, siam fascisti! (1963) – realizzato anche con la collaborazione di Lino Micciché alla regia e di Franco Fortini, autore del testo che accompagna le immagini – rimane forse il loro lavoro più noto. Il film, realizzato con i materiali provenienti dagli archivi di tutta Europa, è quello che si dice un film di montaggio, in linea con la lezione del documentario sovietico, da Šub a Vertov.
Non solo di documentario si è occupata, però, Cecilia Mangini. Da regista gira un cortometraggio di finzione, La scelta (1967), con la fotografia di Alberto Grifi. Ma soprattutto scrive la sceneggiatura di un paio film diretti da Lino Del Fra, a cui Cecilia teneva moltissimo: Antonio Gramsci – I giorni del carcere (1977) e La torta in cielo (1970). Li ho visti insieme a lei, sul televisorino che teneva nel suo studio. Mi ricordo perfettamente di aver pensato in quel momento di essere molto fortunata. Lo penso ancora adesso che torno con la memoria a quel pomeriggio e forse, con un po’ di distanza, capisco meglio la ragione per cui Cecilia amava così tanto quei film. Non posso fare a meno di vedere ora, nella ragazzina de La torta in cielo, lo sguardo incantato di Cecilia quando parlava della sua scelta di trasformare i due fratelli protagonisti del racconto di Rodari, in una banda di ragazzini di periferia: tutti maschi e una sola femmina, la più coraggiosa e temeraria di tutti. Mi piace pensare che quella bambina fosse proprio Cecilia. Dopo averlo rivisto, ho scritto del film e le ho chiesto cosa ne pensasse. Mi disse che la mia lettura la persuadeva. Ora mi dispiace che non possa leggere le poche cose che di lei sono in grado di dire. Ma voglio credere che Cecilia stia lì a guardarci dall’alto, su un disco volante di panna, bianca come i suoi capelli. Ciao Cecilia.
Cecilia Mangini, Mola di Bari 1927 – Roma 2021.