Venerdì 16 dicembre si è tenuta a Napoli, nella sede della casa editrice Cronopio,
di cui era da molti anni socio, la commemorazione del filosofo Bruno Moroncini.
In molti hanno preso la parola.
Pubblichiamo, lievemente ampliato, l’intervento di Maurizio Zanardi.
Come essere giusti con te, Bruno? Come dire qualcosa, in questo momento così doloroso, di cui non ci si debba vergognare? Per di più, tenendo a mente la tua mirabile orazione funebre in ricordo di Jacques Derrida? Ma tacere non sarebbe qui – di fronte agli amici, sempre rari – altrettanto, e forse ancor più, vergognoso? Lasciarti andare senza lo sforzo, la pena, il rischio di una parola? Impossibile non vergognarsi, eppure bisogna dire: per amicizia, gratitudine, debito.
Ti immagino seduto in questa stanza dove tanto e a lungo abbiamo, tra noi soci ma anche con tanti altri, discusso, litigato, scoperto pensieri convincenti, percorso vicoli ciechi, preso decisioni; ti immagino ascoltare discorsi per te intollerabili con l’insofferenza palese, dipinta sul viso, borbottata, commentata tra te e te, a stento trattenuta e mi chiedo se prenderesti allo stesso modo queste parole che ti dedico.
Che cosa ne pensa Bruno? Che cosa ne sta pensando? Che ne ha pensato? Che ne penserà? Sono domande che mi hanno assalito di frequente da quando ci siamo lasciati prendere da una duratura collaborazione, affrontando momenti difficili, quelli che pensi manderanno tutto all’aria, Rosanna ne sa qualcosa credo, ma senza smettere di elaborare progetti, favorire incontri, prendere la parola contro le politiche dell’immigrazione, a cominciare dalla legge Turco-Napolitano. Abbiamo condiviso la soddisfazione per il successo di libri amati, la delusione per insuccessi inattesi e per noi ingiusti, ma mai è venuto meno il tuo sostegno a questa impresa senza utili, in continua perdita.
Hai messo in atto quel sovrano dispendio, quella «economia» che hai più volte teorizzato, riprendendo, rilanciando il pensiero di Bataille. L’amore per la teoria era in te così forte da non poter restare senza conseguenze. Conseguenze accettate senza recriminazioni o ripensamenti. Forse perché avvertivi che la nostra desiderava essere un’impresa teorica, che la pubblicazione di libri era progettata per proporre, esplicitare, chiarire questioni e abbozzare risposte.
Eri capace di mediazione in più campi, ma nella teoria intransigente all’estremo. Un’intransigenza che spiccava nel mare dei cedimenti teorico-politici cui abbiamo assistito desolati da almeno trent’anni. Il tuo impegno mi confortava, mi convinceva che l’impresa procedeva effettivamente come un’attività teorica, che si sarebbe forse potuta ascrivere all’istituzione e all’esperienza di quell’università senza condizione di cui ha scritto il tuo Jacques Derrida. La tua passione teorica, l’eccesso di chi pur conosceva e praticava i riti dell’accademia, contribuiva a contrastare lo spirito accademico che minaccia anche i luoghi che si vogliono non accademici: l’accademismo degli antiaccademici.
Cosa ne pensa Bruno era dunque una domanda decisiva, ne andava niente di meno che di una forma di vita. E anche quando in me insorgeva violenta una contestazione, per lo più politica, dei tuoi pensieri, delle tue prese di posizione, era in rapporto a loro, così disturbanti, che mi trovavo costretto a precisare il mio dissenso, a cercare l’istanza che potesse sostenere le mie rimostranze. La tua scomparsa è il venir meno di un pungolo e di una sponda, per la capacità, che abbiamo la fortuna di ritrovare nelle tue scritture, di inquadrare l’essenza delle questioni e offrire appigli per affrontarle. Sei stato un aiuto nell’angoscia e perdizione del pensare.
Hai scritto tanto, con grande intensità negli ultimi anni, quasi con furia dopo il manifestarsi della malattia. Non sei mai andato in pensione. E tanti i temi: il tragico, la lingua, la traduzione, la comunità, la potenza della forza lavoro, il desiderio, la pulsione, l’amore, l’amicizia, il perdono, la giustizia, la crudeltà, la politica, la guerra, la democrazia, il cosmopolitismo, Napoli, la letteratura, la poesia… E tanti gli autori di riferimento: Platone, Kant, Hegel, Leopardi, Dostoevskij, Marx, Nietzsche, Freud, Benjamin, Heidegger, Bataille, Blanchot, Foucault, Derrida, Lacan, Celan, Pasolini… Del ruolo di Aldo Masullo nella tua formazione hai scritto e detto recentemente.
Eppure, attraverso tanti temi e autori, come tu stesso lucidamente hai notato, sei tornato sempre sulle stesse cose:
Poiché è vero che se si va con lo zoppo s’impara a zoppicare, la frequentazione, in certi periodi quasi quotidiana, degli psicoanalisti lacaniani e quella altrettanto continua, ed alle volte intensa, dei testi di Lacan, seminari ed Ècrits […] deve avermi condotto, quasi senza che me ne accorgessi, a calibrare l’andamento del mio modo di pensare e ricercare sul ritmo della ripetizione, sul ritornare sempre di nuovo sulle stesse cose (esattamente il contrario del fenomenologico andare verso le cose stesse), sull’essere condannati ad un movimento da fermo che bolla come ideologica e immaginaria ogni idea di un percorso, etico o concettuale, rivolto al raggiungimento di una meta, alla realizzazione di uno scopo.
Mai avrei immaginato negli anni dell’università di diventare amico di quel professore che parlava una lingua estranea agli altri insegnamenti filosofici, che sembrava farsi forte di una fiera distanza anche nella vicinanza più prossima, che mostrava un’insofferenza invincibile nei confronti dei discorsi dei comuni mortali e che decostruiva implacabile le posizioni filosofiche a me care. Ma ciò che avversavi in modo eminente erano i discorsi idealisti. Non il sofista era il tuo avversario, per il quale provavi simpatia. Non era il sofista l’avversario della filosofia per te, ma l’idealista. Eri disposto a sopportare le posizioni più estranee alla tua lingua, purché ben costruite, argomentate, ma di fronte all’idealista, ai propagandisti dell’immaginario e dell’illusione, non riuscivi a trattenerti, perdevi le staffe. E a sinistra ne trovavi a bizzeffe. Sapevi che gli idealisti di fronte alle sconfitte avrebbero ceduto. Ma io tra gli illusi ero ben lontano dal sospettarlo. A quel tempo non mi eri affatto simpatico; era di te che sospettavo.
Al di là dell’immaginabile, di ogni familiarità-fraternità, sentimentalismo, corrispondenza, rispecchiamento, è giunta silenziosa l’amicizia. Com’è giusto che sia. L’amicizia non ha forse a che fare con la comune ricerca di formule, operazioni, gesti che introducano un’altra logica del mondo e di noi stessi?
Hai scritto: «Quando comincia un’amicizia? Difficile a dirsi. Forse impossibile. E non per un difetto di memoria o per un suo improvviso cedimento, quanto per il fatto che il tempo degli inizi, è un tempo senza data: nulla di memorabile accadde ai primi incontri». La memoria della giovanile antipatia-attrazione nei tuoi confronti non spiega l’amicizia. L’amicizia arriva al di là dell’immaginabile e del memorabile, ne è spesso una contestazione. Pensare che il sospetto nei tuoi confronti covasse già segretamente la possibilità dell’amicizia, è in verità possibile solo grazie all’accadimento imprevisto e in punta di piedi dell’amico. È l’evento della amicizia ad aprire il campo alla possibilità della sua spiegazione o presentimento. L’amicizia ha la precedenza. All’amico dobbiamo tornare per inventare e inventarne una memoria.
Bruno Moroncini, Napoli 1946 – Napoli 2022