Coglimi al volo
e tenta di risolvere
l’enigma di felicità
che ti propongo.
M. Proust, Alla ricerca del tempo perduto
Lui è “bello e dannato”, o comunque pesante e malinconico. Lei è “felice anche se non è scema”. O comunque allegra e leggera. Si incontrano, si amano. Poi cambiano, si rincontrano, si amano ancora e non si amano più, si salutano. Fine di una storia d’amore in un film d’amore e che richiede amore. È il secondo lungometraggio di Valerio Mieli, sono passati dieci anni dal suo primo Dieci inverni (2009) e l’autore torna in questa primavera con un’altra, nuova storia d’amore. Lì era tra Camilla e Silvestro, qui tra Luca Marinelli e Linda Caridi che, nel film, sono personaggi senza nome.
Ecco il primo momento che rende questa storia d’amore uguale e diversa da tutte le altre, come tutte le storie d’amore richiedono di essere: il nome, o la sua mancanza. Chiamare qualcuno per nome vuol dire riconoscerlo, cioè conoscerlo nella sua alterità, nel suo essere altro da noi, presupposto imprescindibile per poterlo – quel qualcun altro – amare. Come può amarsi un amore senza nome? Se in Dieci inverni i personaggi erano delineati e lo spettatore aveva modo, anno dopo anno, di seguire i loro percorsi personali e parallelamente assistere al loro rapporto che nasceva dai loro contorni, qui i personaggi non hanno contorni, sfumano l’uno nell’altro e con loro lo sguardo della macchina da presa che non si allunga più sulla laguna veneziana mentre osserva i personaggi allontanarsi in gondola o separarsi in piazze vuote, ma rimane avvinghiato in primi piani, o in stretti controcampi: “Non sappiamo neanche come ci chiamiamo” si dicono lui e lei la sera che si incontrano mentre le loro mani si intrecciano nel folto bianco pelo di un cane. E non si sa dove finiscono le dita di uno e iniziano quelle dell’altro.
Per tutto il film, in ogni ricordo che attraversano, lui e lei si baciano, si toccano, si guardano, fanno l’amore, si vivono ma mai, mai si chiamano per nome. Lui e lei si amano ma quando si guardano per dirselo già non si amano più. Lui ha imparato “a non guardare indietro, a non pretendere troppo”, lei è “diventata bravissima ad essere triste”. Nell’uno, è entrato dentro un po’ dell’altro. Cosa è successo? Come si racconta tra l’inizio e la fine, quello che succede in una storia di amore? Come si vive un amore? Con gli eventi che accadono, con il tempo che passa, con il tutto che cambia: “Non è colpa nostra, è cominciata a finire quando è iniziata”.
È il secondo momento della storia d’amore: il tempo. Dopo il riconoscimento dell’altro, c’è il riconoscimento del tempo dell’altro. Che nel frattempo è intrecciato al nostro e unito al filo continuo del tempo che scorre. Ecco allora che un film d’amore diventa un film sulla memoria, su come – in particolare lui ne è ossessionato – ricordare i ricordi. È un sistema di costruzione del racconto molto complesso quello del film di Mieli, strutturato per soli ricordi, tale che il film diventa non una successione (non segue un ordine cronologico) ma una mappatura di ricordi, delle vite di entrambi i personaggi, dei momenti vissuti insieme e di quelli delle loro vite prima e dopo il loro incontro. In questa costellazione di ricordi, che potrebbe avere il risultato nauseabondo dell’affastellamento, un prezioso lavoro di montaggio (di Desideria Rayner), riesce a tessere nel film una trama, altrimenti inesistente perché basata solo e soltanto su un sentimento.
Non c’è progressione e gli eventi che accadono sono pochi e non rilevanti: ciò che accade “si chiama il tempo che passa”. Il tempo che passa nell’amore che passa, è il tema che il film non risolve strutturandolo in un intreccio (né commedico, né melodrammatico), piuttosto, destrutturandolo con un andamento romanzesco per capitoli, che qui sono i ricordi, in un andirivieni della memoria che sembra casuale eppure riesce a tessere un ordine necessario. Per arrivare a una fine non necessaria, che infatti non c’è. Non finisce l’amore, non finisce la storia, non finisce il film. I titoli di coda continuano, continuando ad alternare presente e passato, mentre i tasti del pianoforte in sovraimpressione si agganciano gli uni agli altri, come molecole di dna, come vite che si incastrano ad altre vite nella corsa del tempo, nel corso del tempo.
È il tempo il protagonista assoluto del racconto, è il tempo che scrive la storia, mentre i personaggi possono solo scegliere come vivere nel tempo: “Alla fine le cose sono belle perché sai che finiscono” dice lei, “no le cose sono meno belle perché ci angosciamo che finiscano”. E mentre lui immagina una città-foresta in cui “tra un po’ non si morirà più e avremo tutto il tempo di ricordare”, lei prova a convincerlo che le cose sono belle anche durante, solo che non ce ne accorgiamo e lo esorta a cambiare gioco: “il passato è passato, lasciamolo un po’ in pace sennò si consuma”. Così, mentre aspettano il futuro insieme, “dopo tutto quel presente”, si ritrovano già nel passato. In una vita che rimane tenuta insieme solo nei ricordi, nella casa prima solo di lui poi di tutti e due, nei tradimenti, nei lutti, in tutto ciò che passa nell’amore perché passa nella vita, nell’amore quando diventa inverno.
È sempre molto gelido l’amore in Mieli, in Dieci inverni lo era per le stagioni filmate nella laguna veneziana, qui fa freddo (anche la fotografia) anche quando c’è il sole. E se c’è qualcosa che cade è sempre neve. Neve che si scioglie sciogliendo “quel duro desiderio di durare” (Paul Eluard) che è, o vorrebbe essere, la promessa coraggiosa degli amanti. Finché il desiderio di durare si scontra con la necessità di cambiare. Perché ciò che non cambia, non è reale. L’amore, per essere reale (per essere vero amore), deve cambiare. E per cambiare, l’amore deve fare un salto, deve rivoluzionarsi da se stesso, compiendo un movimento che è da dentro a fuori. Non c’è moto che non parta dal centro, ma non c’è cambiamento che possa avvenire tutto interno, nel soggetto. Ecco, il terzo momento che rende una storia d’amore un film sulla memoria e infine una riflessione sulla vita: il fuori.
Anche, anzi soprattutto da questo punto di vista, Ricordi? si colloca stilisticamente all’opposto di Dieci inverni, dove i personaggi evolvevano indipendentemente gli uni dagli altri, incontrandosi ogni anno, sempre diversi. Lì era il flusso della vita ad incontrare i personaggi, qui sono i personaggi ad essere imbrigliati in quello stesso flusso. Sono talmente vicini, così simbiotici da influenzarsi reciprocamente: l’unico sguardo di cui godono è quello restituito dall’altro, tutto è in soggettiva, non c’è una visione oggettiva dal di fuori, non c’è cornica esterna, nessun punto di vista che non sia quello dei due personaggi. Non c’è un fuori al di fuori di loro.
C’è solo il duo, simbiotico, della coppia, slegato da qualunque riconoscimento (della società, delle famiglie di origine), istituzione (matrimoniale), legame (famiglia). Un amore asfittico come asfittici possono essere i sentimenti quando si avvitano su se stessi, quando “la poesia diventa pappa”. Da questo punto di vista, è un sentimento ancora giovane quello raccontato da Mieli in entrambe le sue opere, e forse la sua domanda che da quegli inverni giunge a questa primavera è proprio questa: come questo amore, che quando nasce dovrebbe essere così tutto amore, perso negli occhi dell’altro, possa diventare altro, possa aprirsi al fuori che la vita richiede, estroflettendosi nel flusso del tempo in cui siamo immersi.
Questo tempo dell’amore ci racconta Mieli. E lo fa in un modo coraggioso, vitalistico, che non cerca nell’epica, nei fumetti, nelle contaminazioni tra generi la propria originalità ma nel modo di raccontare le cose. Più di tutto, quello che colpisce anche in questa sua seconda opera, confermandone il tratto distintivo, è la delicatezza. Una rara delicatezza nel posare lo sguardo sulle cose del mondo e della vita, sui sentimenti. Sugli amori che hanno bisogno di adesso, ma anche di domani. Sul sentimento che ha bisogno di aprirsi al fuori per trovare nell’universalità di ogni storia d’amore tra Lui e Lei, la singolarità dell’amore unico, Io e Te.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Amore, in Lessico del cinema italiano. Forme di rappresentazione e forme di vita, a cura di Id., vol. I, Mimesis, Milano 2014.
J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora, Einaudi, Torino 2011.
*Le immagini presenti nell’articolo e in copertina sono foto di Sara Petraglia.