L’arte e la vita non sono la stessa cosa,
ma devono diventare in me unitarie,
nell’unità della mia responsabilità.
Michael Bachtin

Da The Artist is Present (MOMA, 2010) a The Cleaner (Palazzo Strozzi, 2018) ciò che manca è Marina Abramović. L’artista “presente” è stata “ripulita”. Non solo non c’è più Marina (la chiameremo qui come la chiamano i suoi fan) né per sette ore al giorno (come nella performance a New York) né mai, ma, se non si accede alla mostra negli orari giusti, non ci sono nemmeno gli artisti a cui Marina ha affidato la replica delle sue performance.

Ecco allora l’aspetto di questa mostra-retrospettiva su cui si inscrive un primo livello di riflessione: Marina Abramović, regina indiscussa della performance contemporanea, è anche l’inventrice della Re-performance, ovvero il riallestimento di una performance, al fine di preservare, replicandola, un’arte e un’opera (che nella Performance Art si trovano in una particolare congiuntura) per sua natura effimera. Cosa allora la Re-performance aggiunge alla Performance Art? E come la ripetizione di un evento unico può mantenere salda l’ontologia dell’attualità della Performance Art?

Sarà utile ricordare che, quando nella West Coast di inizio anni ’70, la Performance Art nasce sul terreno già fertile degli happening e degli environment, di un’arte cioè che si è ormai delocalizzata travalicando i confini spaziali del teatro, della tela, del museo e del cinema, essa si afferma anzitutto come arte corporea volta al recupero della sfera percettiva e della coscienza del proprio corpo (la Body Art a cui è legato il nome di Abramović) e come arte radicale che mira a cambiare la vita delle persone che la praticano implicando anche il rischio personale del performer. Alle sue origini quest’arte viva, arte cioè dell’esperienza, non prevede alcuna possibilità di replica, imponendosi come evento unico, senza prove, e con protagonista assoluto il performer, che è «tutto quello che l’artista, occidentale o orientale, è in grado di compiere (to perform) in scena» (Pavis 2002, p. 289).

Nel 2010 “la nonna della Performance Art”, come Marina Abramović ama definirsi, fonda invece il MAI (Marina Abramović Institute for the Preservation of Performance Art) “per proteggere e preservare l’eredità intellettuale e spirituale delle arti performative dagli anni settanta in poi e che servirà come omaggio all’arte temporale e immateriale”. È un progetto ambizioso e anche molto oneroso, avviato fattivamente nel 2013 grazie ad una campagna di crowdfounding  con cui Marina si è rivolta ai suoi fan. Lei stessa nel 2005, in Seven Easy Pieces (di cui pure la documentazione videografica è in mostra a Palazzo Strozzi), ha reinterpretato alcune performance innovative degli anni ‘60-’70, ideate da altri artisti per “esaminare la possibilità di allestire di nuovo”. L’idea è quindi quella di creare opere che possano sopravvivere all’autore e al momento performativo, rendendo benjaminiamente riproducibile un’opera in un’epoca in cui questo è senz’altro possibile ma in un verso contrario alla natura dell’opera stessa.

La Re-performance è infatti la performance di un artista rifatta, in un altro momento e in un luogo diverso, da un altro artista, nella convinzione che “interpretate da nuovi artisti, le opere non sono più solo documentazione d’archivio, ma acquistano una nuova vita e mutano a seconda del performer, esattamente come avviene con le esecuzioni di un brano musicale che cambia profondamente da un interprete all’altro”. L’impressione però, usciti da Palazzo Strozzi, è più quella di un’esecuzione: un performer che, interpretando un’altra performance, smette di essere un performer e diventa un interprete, attore della performance di qualcun altro, mentre «il Performer, con la P maiuscola, è l’uomo d’azione. Non è l’uomo che fa la parte di un altro» (Grotowsky 1988, p. 163).

Il risultato della riesecuzione dal vivo dal gruppo di performer appositamente selezionati dai collaboratori di Marina Abramović e formati con il cosiddetto “Abramović Method”, è più quello di una buona palestra dove allenare il talento dei giovani artisti – di cui è stata nota in proposito la polemica di questi mesi – mentre le cinque Re-perfomance che costituiscono il cuore della mostra rimangono, per lo spettatore che le conosce, le performance di Marina Abramović, uniche nel momento e nel luogo in cui sono avvenute, e riprodotte nei materiali audio-video con cui hanno raggiunto un pubblico più ampio, ma comunque le sue performance, da lei concepite, pensate per e sul proprio corpo.

Ad esempio in Luminosity l’artista-performer rimane appoggiata per 60 minuti sul solo seggiolino di una bici, nuda davanti agli occhi dei suoi spettatori. La performance si configura come una dura prova di resistenza (fisica) ma in un ambiente controllato che non ha nulla in comune con l’imprevedibilità e il rischio a cui Abramović si è sottoposta nelle sue performance, molte delle quali sono state interrotte o proseguite anche con l’artista a terra priva di sensi, come nella serie Rhythm del 1974 in cui Abramović, stesa al centro di una stella a cinque punte infuocata, da lei stessa costruita, è svenuta per mancanza di ossigeno ed è stata soccorsa da due spettatori solo quando il fuoco ha iniziato a bruciarle una gamba (Rhythm 5, Belgrado).

Così come nella Re-performance di Cleaning The Mirror del 1995, mentre l’artista interagisce nello spazio con uno scheletro umano provando energicamente a ripulirlo con una spazzola immersa ripetutamente nell’acqua, lo spettatore assiste alla performance già sapendo che lo scheletro non si pulirà mai mentre l’artista si sporcherà sempre di più. O ancora, quando si entra nella stanza dove è allestita Balkan Baroque l’odore di macelleria viene avvertito come un fastidio, riproduzione posticcia dell’effetto disturbante che l’odore vero di carne putrida ha avuto nel seminterrato del Padiglione Italia (nel 1997 la performance vince il Leone d’oro alla Biennale di Venezia) per i quattro giorni in cui Marina sfregò 2000 ossa sanguinolente con attaccate carne e cartilagine fino a farle diventare pulite, dopo le guerre balcaniche e come metafora di tutte le guerre.

Né aggiungono niente i numerosi dispositivi elettronici che, non integrati alla scena performativa, si limitano a replicare, in loop o ad intervalli alternati, le antiche performance o video realizzati appositamente per la mostra. Quasi tutte le 100 opere di questa mostra sono realizzate dislocando nello spazio il materiale che servì alle performance originali, mentre in video (o foto) viene proiettata la performance “madre” o un suo rifacimento. Ad esempio, in Lips of Thomas dietro il tavolo con gli oggetti che furono necessari alla performance del 1975 (miele, vino, lametta, blocco di ghiaccio), sono proiettate su un telo bianco le foto che ritraggono Marina da giovane durante la performance originale, e il video in cui riperforma la sua performance: lei che mangia un kg di miele, che beve un litro di vino, che con la lametta di un rasoio si incide sullo stomaco una stella a cinque punte, che si frusta, che si sdraia sulla croce di ghiaccio finché, dopo trenta minuti, il pubblico interrompe la performance evitando che l’artista muoia congelata e dissanguata. Lei, l’artista vera, nella performance, quella vera.

Marina in questa mostra non c’è, eppure è dappertutto. Dal suo volto sul manifesto, al suo volto su tutti i dispositivi video-fotografici che si moltiplicano in ogni stanza fino a raggiungere la sala finale, dove l’“Autobiografia” con i cassetti pieni di materiale d’archivio completa il racconto sul percorso che ha portato l’artista a dedicarsi esclusivamente alla performance. Più che un’opera di pulitura del superfluo, da cui il titolo della mostra, quello che rimane di The Cleaner è una museificazione dell’artista, un tentativo di imbalsamare quel tempo, che dopo averla consacrata artista e icona di almeno un paio di generazioni, ha in questa mostra il sapore della fine, quello della video-performance Onion in cui, mangiando stancamente una cipolla, Marina così si lamenta: “Voglio diventare vecchia, tanto, tanto vecchia e raggiungere quella fase in cui niente più conta. Voglio capire, vedere chiaramente quello che c’è dietro. Voglio non avere più desideri”.

Come tutte le arti, anche quella della performance si evolve scegliendo come invecchiare. Il rischio della Re-performance è quello di diventare una copia sbiadita dell’originale, invece di partire dal gesto originario per originare un altro, nuovo desiderio. Se per esempio, in Freeing the Voice, invece di urlare fino a perdere la voce come nell’originale di Belgrado 1975, il nuovo performer avesse iniziato – che so – a cantare, oppure se in Imponderabilia i performer avessero usato quel passaggio dello spettatore tra il corpo nudo femminile e il nudo maschile (performance dirompente per la Bologna del 1977), per poi sperimentare nuove possibilità del pudore, interrogando un concetto che chiede oggi di essere indagato in forma inedita. Se in quel “Re” si conservasse sempre il sapore dell’autentico, del nuovo non perché improvviso, ma perché carico di detriti di tutto ciò che si trascina dietro.

Oppure, se dal vecchio si elevasse il tratto saliente dell’oggi a principio di rappresentazione. Mi riferisco alla dimensione della “Partecipation”, la partecipazione del pubblico che, col tempo, ha assunto sempre maggiore importanza nei lavori di Marina Abramović e che anche in questa mostra ha creato i momenti performativi migliori: le due opere partecipate. Una è la sala allestita con un tavolo e due sedie poste una di fronte all’altra realizzate dello stesso materiale, forma e colore di quelle che nel 2010 al MOMA ospitarono per 736 ore e 30 minuti 750.000 visitatori per la performance che ha reso l’artista famosa in tutto il mondo, The Artist is Present. Stare seduti per tutto il tempo che si vuole di fronte a Marina Abramović che ci guarda come è avvenuto nella performance originale (provocando le più disparate reazioni: dal pianto al riso, dall’angoscia all’esigenza del contatto fisico) è cosa diversa da stare seduti contornati da tutte le trecce di Marina ma di fronte, in pasto agli occhi, ad uno sconosciuto, un altro spettatore della mostra, come il percorso espositivo a Palazzo Strozzi prevede.

Proprio perché altra, la performance è riuscita. Non si replica l’esperienza artistica di sostenere lo sguardo di una delle più grandi artiste contemporanee, ma ci si ritrova di fronte a un uomo o una donna qualsiasi costretti a confrontarci con il nostro essere uomini e donne qualsiasi nella sacralità di un tempo e di un luogo altro che è quello dell’arte. Si combatte l’insofferenza fisica dell’immobilità, i rumori del corpo, gli spasmi del viso, l’istinto di ridere, la voglia di piangere, il bisogno di pregare, la necessità dello sguardo dell’altro. Insistere sullo sguardo dell’altro vuol dire creare un’intensità e quest’intensità diventa il luogo dove si accoglie la presenza dell’altro e si avverte una risonanza. È li che in luogo di essere Bios – forma di vita – l’arte di Abramović (e dei suoi spettatori) diventa intensità.

Inaspettatamente intensa è anche l’altra opera partecipata, Counting the Rice, in cui è predisposto un altro tavolo, intorno a cui tutti i partecipanti, indossando delle cuffie, e per tutto il tempo che vogliono, non fanno altro che contare il riso. Come spiega il cartello, bisogna separare le lenticchie (chicchi neri) dal riso (cicchi bianchi) tenendo il conto dei chicchi su un foglio che si può poi portare via con sé o lasciare nella buca dell’installazione. Tutto qui. Eppure Counting The Rice è una performance essenziale per capire l’arte di Marina Abramović e l’arte della performance stessa perché, alla fine dei conti (e anche dei chicchi), ci rivela qualcosa sul Tempo, sul suo passaggio o sulla sua non esistenza.

Ci si trova seduti, costretti (solo da un adempimento personale) a portare a termine un compito, in un momento-luogo che diventa religioso perché comunitario, in cui tutti ripetiamo la stessa azione, in maniera individuale ma insieme, seduti intorno ad uno stesso tavolo, uniti e separati da una striscia di riso che diventa occasione di incontro, possibilità di prendere parte ad un progetto comune che in quel momento ha l’aurea di un’opera. To perform, fare qualcosa insieme agli altri e per se stessi: superare i propri limiti, come la frenesia di voler terminare in fretta, o l’impossibilità di svolgere più compiti contemporaneamente, o il voler distinguerci dagli altri in un fare che ci costringe identici (chi invece di contare il riso lo usava per creare figure).

Un’operazione così banale, semplice e meccanica in cui si fanno scoperte altrettanto semplici eppure così rare, perché difficilmente accadrebbero in altre condizioni: un pugno di cinquanta chicchi di riso è così piccolo da occupare una sola falange di un solo dito sulla nostra mano ma per contare 10, 50, 100, 1000 chicchi di riso occorrono parecchi minuti e una concentrazione dedicata. Occorre tempo. In un’epoca in cui il tempo vale sempre di più perché ne abbiamo sempre meno, prendersi un tempo, perdendolo in un’azione sganciata da qualsiasi fine utilitaristico, contando solo per contare, può diventare un’esperienza mistica, un atto di fede in grado di restituirci il senso dell’istante, riconfigurando ad ogni chicco la vacuità delle nostre azioni e un senso possibile delle nostre esistenze. Perché percepire il tempo del passato nella memoria e immaginare il futuro nella progettualità a venire non aiuta a trattenere la consistenza del tempo presente, nel qui e ora che sempre sfugge.

In questo The Cleaning centra nel segno: “Come in una casa: tieni solo quello che ti serve e fai pulizia del passato, della memoria, del destino”. Siediti, conta il riso, resta, continua a contare.

Riferimenti bibliografici
M. Abramović, Kaplan James, Attraversare i muri. Un’autobiografia, Bompiani 2016.
J. Grotowsky, Il Performer, in “Teatro e Storia”, III, n. 4.
P. Pavis, Dizionario del teatro, Zanichelli, Bologna 2002.
V. Valentini, Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento, Bruno Mondadori, 2007.

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