Ogni volta che una nuova rivista appare sulla scena editoriale, la domanda riemerge con forza: perché una nuova rivista? In un panorama così pieno e potremmo dire saturo di testate e di riviste cartacee e non, cosa può offrire di nuovo? Ciò che caratterizza una rivista è appunto l’Idea che la abita, che ne sostiene l’esistenza, l’Idea che come un sostrato concettuale ne determina la coesione interna, la coerenza argomentativa, la struttura.

Giunta al secondo numero, Revue K. Revue trans-européenne de philosophie et arts, rivista semestrale internazionale trilingue, nata da una collaborazione tra l’Università di Lille e l’Università di Messina si presenta sin dal numero 0 come una pubblicazione realmente coesa. Ogni numero, rigorosamente monografico, è dedicato ad una figura (Antigone per il numero 0, Kafka per il numero 1 e Marilyn Monroe per il numero 2, attualmente on line) indagata però non dal punto di vista esclusivamente storico, né solo come punto di partenza per una serie di analisi testuali. Il nome proprio è di fatto un nome che si situa in un punto di congiunzione tra materiale e immateriale, tra esistenza reale e capacità di evocare a sua volta innumerevoli significati, altre immagini che si susseguono le une alle altre, in una sorta di stratificazione dell’immaginario.

Nel numero dedicato a Marilyn, significativamente intitolato “oltre la bellezza”, il percorso tra i vari saggi, le letture d’autore, le discussioni su altri testi lascia emergere il potere di un nome, la potenza di senso che la figura di Marilyn continua ancora oggi a mostrare proprio in quanto figura sospesa tra materialità e puro immaginario.

L’editoriale (redazionale) lo svela sin dall’inizio: il punto di partenza del discorso è una foto di Eve Arnold, scattata a Marilyn nel 1955, che la ritrae assorta nella lettura dell’Ulisse di Joyce. La foto, messa in scena, studiata, assolutamente lontana da ogni istanza “documentaria” è al tempo stesso una costruzione e una rivelazione: «È un gesto di sottrazione: il gesto di un’attrice che rivendica per sé una maggiore complessità umana» (ivi, p. 10). Marilyn è al tempo stesso interna e disperatamente esterna ad un sistema di costruzione dell’immagine potente come quello hollywoodiano, diventa al tempo stesso simbolo e figura tragica.

Sul lato del simbolico si collocano allora i contributi di Alain Brossat (Marilyn – la femme-fleuve), in cui l’autore mette in evidenza la costruzione di Marilyn come incarnazione del desiderio sessuale maschile, o il saggio di Gianluca Solla (Ninfa hollywoodiana. Il gesto di Marilyn), che lavora su una lettura di Marilyn come Ninfa moderna, secondo una lettura warburghiana mediata dalle interpretazioni di Didi-Huberman: «Marilyn coincide con l’apparizione del carattere-ninfa o, come sarebbe più giusto dire, della sua potenza-ninfa, ossia come incarnazione della potenza della Ninfa» (ivi, p. 29).

Ma la molteplicità delle immagini di Marilyn si produce proprio a partire dal suo essere attrice. Ed è la figura dell’attrice e dell’attore ad essere dunque interrogata, proprio perché è l’attore (come non cessa di ripetere Deleuze) a rappresentare una delle forme contemporanee dell’immagine-cristallo, del punto di congiunzione tra l’attuale e il virtuale. Alessia Cervini (Tre Volte Marilyn: grazia e destino di una diva “moderna”), Florence Pignarre (L’acteur de cinéma: une figure de la destitution. Le cas Marilyn), e Roberto Cerenza (Il doppio corpo di Marilyn) esplorano questa duplicità fondamentale o per meglio dire, triplicità (il personaggio, l’attrice e la donna), come sottolinea Cervini.

Gli interventi seguono, uno dopo l’altro, così come le prospettive di lettura di una icona che si rivela articolata e magmatica; sempre più chiara, scorrendo le pagine del numero, si fa la consapevolezza che la molteplicità della figura di Marilyn ammanta il personaggio di una malinconia e di una tragicità particolari. È in questo senso che l’intervista a Franco Maresco pone una serie di interrogativi sulla contemporaneità di Marilyn. Nella densa conversazione pubblicata nella rivista, il regista palermitano individua nell’attrice americana il punto finale di una parabola ormai compiuta, la parabola della scomparsa del corpo:

Il corpo di ciascuno di noi è diventato un oggetto: non ci sono più resti.  Ancora per un’attrice come Marilyn l’esposizione del proprio corpo era un vero e proprio sacrificio, simile a una crocifissione, senza però alcuna possibilità di redenzione, perché alla religione si è progressivamente sostituito il consumismo, con la sua inumana crudeltà. Pasolini, il poeta, è stato fra i pochi ad accorgersene (ivi, pp. 160-161).

Il riferimento a Pasolini non è casuale, e ricorre in moltissimi degli interventi del numero – che ospita tra l’altro autori che hanno in varie forme già lavorato sulla figura di Marilyn, da Giulia Carluccio (Ninfa estrema. Marilyn Monroe nello sguardo di Bert Stern, scritto insieme a Stefania Rimini), a Mario Pezzella (Il volto e il fantasma. Andy Warhol e Marilyn Monroe) –, perché Pasolini, già nel 1963, subito dopo la morte dell’attrice, dedica a Marilyn una delle sequenze più intense e struggenti del suo lavoro di found footage, La rabbia, di fatto aprendo alla lettura di Marilyn come corpo complesso, materiale e immateriale insieme, e dunque tragicamente contemporaneo.

Ecco allora emergere con chiarezza l’Idea che abita il percorso di Revue K: il prendere di petto la questione dell’immagine incarnata, del corpo che, smaterializzandosi all’interno delle dinamiche della società dello spettacolo rimane comunque corpo che soffre, esposto alla violenza degli sguardi e al tempo stesso nascosto, enigma come ogni icona. Un’Idea che fa della rivista un punto di congiunzione, non solo di sguardi e scritture provenienti da diverse tradizioni e territori, ma anche di prospettive teoriche, nella consapevolezza che ogni sguardo retrospettivo è sempre una interrogazione della contemporaneità.

*L’immagine di anteprima dell’articolo è: Marilyn Monroe fotografata da Bert Stern (particolare).

Tags     Marylin Monroe, Revue K
Share