In un intervento del 2009 intitolato Home, Toni Morrison ricorda quanto sia cambiato il luogo in cui ha trascorso la sua infanzia in Ohio, ma subito dopo aggiunge che «non ha importanza, perché casa è ricordo e quei compagni e/o amici che lo condividono» (Morrison 2019, p. 18). Dunque, per sentirsi a casa non è necessario ritrovare quello stesso luogo che la memoria conserva, bensì ricostruire i momenti trascorsi in strada, i giochi, i litigi, le corse in bicicletta e le ginocchia sbucciate. Tuttavia, poco più avanti, Morrison pone una questione cruciale: «Che cosa intendiamo nel dire “casa”?» (ivi, p. 19). Questa è anche la domanda attorno alla quale, in un certo senso, gravita Residue, opera prima di Merawi Gerima.

Jay lascia il quartiere di Eckington con la famiglia quando è un bambino, poi si trasferisce in California e, dopo anni, decide di tornare nella sua casa d’infanzia per girare un film sulla gente che ancora abita in quelle case, nonostante la gentrificazione, la ghettizzazione della componente afroamericana e le continue persecuzioni da parte della polizia. Ora Eckington ha cambiato nome (NoMa, cioè North of Massachusetts Avenue) e sono soltanto pochi gli amici che non sono in carcere, irreperibili o, nel peggiore dei casi, morti assassinati. All’inizio del film, una voce fuori campo accompagna alcune immagini di repertorio degli scontri tra polizia e afroamericani, anticipando l’epilogo delle ricerche di Jay: “Pensavi che un film potesse salvarci?”.

Il problema che Jay si trova ad affrontare è duplice: da un lato, l’impossibilità di reinserirsi nel contesto di appartenenza dopo anni di assenza e trasformazioni; dall’altro, la diffidenza da parte delle persone che temono che Jay possa essere una spia o un infiltrato perché fa troppe domande. Inoltre, la difficoltà di essere incluso nuovamente nella comunità deriva dalla disgregazione della comunità stessa: le diverse tipologie di narrazione – la vita nel quartiere, le immagini d’archivio, le visioni e le proiezioni di Jay nel presente e nel passato, le inquadrature degli oggetti a distanza ravvicinata – riportano costantemente lo spettatore in un luogo che non può essere definito perché non è del tutto riconoscibile né come luogo della memoria, né come luogo fisico.

Il punto è che Eckington non esiste più o, perlomeno, esiste nei ricordi di Jay e nelle poche tracce umane che non sono ancora state annientate attraverso quella che è una vera e propria strategia di controllo nei confronti della popolazione. Tornando alle parole di Morrison, il «movimento di masse umane ha incendiato e disgregato l’idea di casa e di patria e ha reso necessaria, nella definizione dell’identità, non più l’indicazione della cittadinanza, bensì la precisazione dell’estraneità» (Morrison 2019, p. 20). Estraneo, quindi straniero. Straniero per i nuovi abitanti, ma anche per i vecchi; straniero per i luoghi che cambiano, ma anche per quelli che restano uguali; straniero anche per il proprio corpo.

Quando Jay va a trovare il suo amico Dion in carcere – il “fratello maggiore” che gli ha scritto tante lettere alle quali non ha mai risposto –, il colloquio si sposta quasi interamente nella proiezione mentale del protagonista che immagina di essere tornato con lui in montagna, sotto l’ombra degli alberi, nei paesaggi che frequentavano da piccoli, tutti insieme. Ci sono i sorrisi e gli abbracci, c’è il sole; soltanto per alcuni istanti, le immagini corrispondono al reale colloquio tra i due, nel parlatorio grigio, buio e umido del carcere, con una grata che li separa, le lacrime di entrambi e l’ammonimento a rientrare in cella perché il tempo è scaduto. È per questo che Jay sente di dover affermare che questa è la sua casa, sapendo già che tale gesto comporterà il rischio di essere uguale agli altri: Demetrius sparito; Mike morto; Delonte che combatte con i suoi demoni.

Infine, è proprio il suo corpo a tradirlo: sono i pugni e i calci che sferra al corpo di un ragazzo incontrato per strada, un corpo nuovo che non può appartenere ai suoi ricordi e non deve appartenere al suo presente. L’ultima scena è l’unica che ha un’inquadratura dall’alto. Un ragazzo e una ragazza sono su un terrazzo: li vediamo di spalle mentre, a loro volta, guardano Jay che corre inseguito da poliziotti, con le sirene e le luci blu sempre più vicine. Sono sorpresi, come di fronte alla scena di un film d’azione: il banale chiacchiericcio normalizza quanto accade e tutto si perde, finisce.

Resta, però, il messaggio di Merawi Gerima in tutta la sua potenza: Residue è memoria. Un residuo che non è né uno scarto, né un avanzo, ma qualcosa che resta sul fondo delle cose, delle strade, delle vite. Come lo definisce il regista, è il tentativo di rendere testimonianza di una presenza attraverso il linguaggio cinematografico, per non lasciare che tutto venga sommerso dall’accettazione rassegnata con la quale, a volte, si affrontano le imposizioni.

https://youtu.be/wczlPXhko9I

Riferimenti bibliografici
T. Morrison, L’importanza di ogni parola, Frassinelli, Milano 2019.

Residue. Regia: Merawi Gerima; sceneggiatura: Merawi Gerima; fotografia: Mark Jeevaratnam; montaggio: Merawi Gerima; musiche: Black Alley, Total Control Band, Critical Condition Band, Isaiah Hall; interpreti: Obinna Nwachukwu, Dennis Lindsey, Taline Stewart, Derron Scott, Jacari Dye, Julian Selman, Melody Tally, Ramon Thompson; produzione: ResidueDC.

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