Lo shock dell’arte moderna ci è stato inferto nella prima metà del Novecento, come lo shock della fisica post-newtoniana (legata alle geometrie non euclidee): abbiamo avuto un secolo per riprenderci, ma forse non ci siamo ancora riusciti (e il terrapiattismo, cioè la reazione oscurantista alla scienza moderna, impazza in varie forme). Curioso notare la cronologia parallela che lega pittura astratta e fisica atomica: nel 1905 escono gli articoli sulla relatività ristretta (spaziotempo! campo elettromagnetico! E=mc²!) scritti dal venticinquenne Albert Einstein, impiegato dell’ufficio brevetti di Berna; nel 1908 si trasferisce a Berna il ventiseienne Wilhelm Worringer, che si è appena laureato con una tesi intitolata Astrazione e empatia; nel 1910 Kandinsky (che ha in comune con Einstein una permanenza a Monaco di Baviera) scrive Lo spirituale nell’arte e dipinge il suo primo acquerello astratto, seguito nel 1914 da Mondrian (un teosofo secondo cui “la scienza moderna ha confermato che materia e forza sono una cosa sola”); nel 1915 escono gli articoli di Einstein sulla relatività generale (campo gravitazionale!); nel 1921 Einstein riceve il premio Nobel per la fisica (fotoni!); nel 1922 Kazimir Malevič, dopo aver azzerato tutta la storia della figurazione occidentale (1913 Quadrato nero su fondo bianco, 1918 Quadrato bianco su fondo bianco), scrive un saggio intitolato Il mondo come assenza di oggetti.
Anche il cinema sperimentale, sganciandosi da quella base fotografica che Bazin vedeva votata al “realismo ontologico”, s’è trovato negli anni Einstein a mimare tutto un universo vagamente quantico, a partire dai “pacchetti” di Hans Richter (Rhythmus 21 e Rhytmus 23): tra il 1921 e il ’25 Walther Ruttmann produce le quattro parti di Opus; nel 1924 il pittore Viking Eggeling (uno che studia Bergson e Worringer) realizza i sette minuti di Diagonal-Symphonie. Ma i critici alla Jean Mitry hanno il pollice verso, e il cinema moderno – all’opposto della pittura moderna e della scultura moderna – sarà quello votato al (neo)realismo piuttosto che all’astrazione: forse, come suggerisce Flusser in Per una filosofia della fotografia, una sorta di risarcimento che le immagini tecniche offrono rispetto alle incomprensibili scienze che le hanno create. Un secolo dopo, ci serve una riconciliazione, dunque ci serve un’assimilazione delle questioni: può Carlo Rovelli aiutarci in questa impresa?
Rovelli è il responsabile del gruppo che al Centre de physique théorique dell’Università di Aix-Marseille si occupa di gravità quantistica; e soprattutto è un divulgatore tradotto in oltre 40 paesi, autore di bestseller che vanno da Sette brevi lezioni di fisica (titolo che rimanda al bestseller del premio Nobel per la fisica Feynman Sei pezzi facili, che a sua volta faceva il verso al film di Rafelson Cinque pezzi facili) a Helgoland (opzionato quest’anno per diventare una serie tv internazionale su vita e opere di Heisenberg & Co.). In questa ultima opera (scritta in inglese e tradotta da Pietropaolo Frisoni) che con falsa modestia si presenta come una simple introduction alla relatività generale, sfida i suoi lettori/studenti – presupposti capaci di leggere le formule matematiche e di ricordare i manuali di liceo (“Assumo che il lettore abbia familiarità con le basi della relatività speciale” è lo scoraggiante incipit) – a colmare il vuoto che li separa dalle prossime scoperte in materia di gravità quantistica a loop.
L’andamento espositivo è in tre sezioni: giustappunto le basi (fisiche, matematiche, geometriche ma anche filosofiche: non scordiamoci che da giovane Einstein leggeva la Critica della ragion pura); la teoria (con l’imperativo “dimostralo” rivolto al lettore/studente a margine di qualche affermazione per me incomprensibile); e le applicazioni (astronomiche, astrofisiche, cosmologiche e ovviamente tecnologiche). Se nel 1945 la distruzione atomica di Hiroshima e Nagasaki rese tragicamente chiaro il senso della formula E=mc², oggi possiamo più tranquillamente associare la relatività generale al funzionamento del GPS, che permette di localizzare un cellulare combinando i dati di quattro satelliti dotati di orologio atomico. Il termine big bang è entrato nel linguaggio corrente da quando Fred Hoyle lo usò in senso dispregiativo durante una trasmissione radiofonica della BBC nel 1949, prima della scoperta della radiazione cosmica di fondo; il termine buco nero (black hole) è stato coniato da John Wheeler nel 1967, in sostituzione di espressioni come dark star o black star comunque care ad artisti come John Carpenter e David Bowie; eppure abbiamo ancora bisogno di vedere per credere…
Noi che ci occupiamo di immagini tecniche, ci precipitiamo sulla figura 10.5, che affianca due elementi circolari di colore giallo/rosso su fondo nero. La didascalia ci spiega: “Sinistra: photon ring previsto dalla teoria. Destra: la prima vera immagine astronomica di un orizzonte [degli eventi], ottenuta dall’Event Horizon Telescope nel 2019” (Rovelli 2021, p. 125). L’ipotesi e la conferma messi a confronto: da un lato un cerchio di luce “disegnato” (supponiamo al computer), dall’altro la cosiddetta “foto del secolo” (la prima che ci mostri il vero aspetto di un buco nero) accolta dall’opinione pubblica inizialmente con entusiasmo e poi con la delusione dovuta al fatto che non si tratta ovviamente di una foto in senso tradizionale ma piuttosto della visualizzazione di una serie di dati ottenuti da un complesso sistema di telescopi. Quella che Rovelli chiama “evidenza osservativa”, ribadita dal termine “crediti fotografici” usato per le immagini coperte dal copyright Event Horizon Telescope, ha poco a che fare con la luce visibile: l’astrofisica multimessaggera non è una tele-visione in “diretta” come ai tempi del cannocchiale di Galileo, ma una tele-scopia “in differita” che utilizza tutti i segnali dello spettro elettromagnetico, dalle alte frequenze a piccola lunghezza d’onda (ultravioletto, raggi X, raggi gamma) alle basse frequenze a onde lunghe (infrarosso, microonde, onde radio). Insomma i fotoni di Einstein si rilevano ma non si vedono, semmai si visualizzano: dicono la verità sulla realtà, ma non ad occhio nudo o con protesi paragonabili alla macchina fotografica o alla cinepresa.
La realtà non è come ci appare: il titolo del libro di Rovelli del 2014 (sottotitolo La struttura elementare delle cose) dovrebbe ricordare a noi critici cinematografici che troppo spesso il “realismo” dei film è un realismo “ad occhio nudo”, legato ad un “apparato ideologico di base” (la macchina da presa secondo Jean-Louis Comolli) di ascendenza rinascimentale. Non che non ci siano registi che hanno azzardato una sorta di narrazione quantistica – da Lynch a Malick a Nolan passando per il Gus Van Sant di Elephant (2003) – ma certo siamo ancora lontani dalle riflessioni condotte da Moholy-Nagy in Pittura Fotografia Film, pubblicato come manuale Bauhaus nel 1925 (l’ultimo manuale, nel 1926, sarà Punto, linea, superficie di Kandinsky).
L’antica domanda di Bazin “Che cosa è il cinema?” si allarga, nell’epoca della spettroscopia (senza scordare che la scoperta dei raggi X da parte di Röntgen risale al 1895, anno dell’invenzione del cinematografo Lumière), ad una domanda radicale quanto quelle di Einstein sullo spaziotempo e sulla luce: cosa significa vedere o visualizzare in tempi di radioastronomia e interferometria? Una questione che riguarda non il pre-cinema bensì il post-cinema e i suoi pixel: che cosa è “foto-grafia”?
Riferimenti bibliografici
C. Cosmelli, Fisica per filosofi, Carocci, Roma 2021.
M. Razzano, Ascoltare il cosmo. Le frontiere dell’astrofisica dai neutrini alle onde gravitazionali, Carocci, Roma 2021.
C. Rovelli, Relatività generale. Una semplice introduzione, Adelphi, Milano 2021.
Carlo Rovelli, Relatività generale. Una semplice introduzione, Adelphi, Milano 2021.