Che cos’è un «classico» in fotografia? Per quanto riguarda il ritratto di moda, le immagini di Richard Avedon si propongono come un candidato piuttosto illustre. Relationships, la mostra a lui dedicata adesso in corso a Palazzo Reale, curata da Rebecca Senf, propone uno spaccato degli oltre sessant’anni di carriera del celebre fotografo: dai primi lavori scattati per “Vogue” agli esordi per “Harper’s Bazaar” passando per la sterminata produzione in studio fino ad una sezione dedicata alla sua collaborazione con Versace. Il titolo dell’esposizione fa riferimento ad una precisa scelta curatoriale che si rifà all’idea di affiancare ritratti singoli e scatti di coppia o di gruppo. I nuclei tematici proposti affiancano infatti immagini non appartenenti a specifiche serie, ma che focalizzano l’attenzione sulle differenti modalità relazionali che si innescano tra soggetto e fotografo e tra i soggetti fotografati.

Passeggiare per le sale di Palazzo Reale e perdersi nell’osservazione delle stampe di grande formato – rigorosamente delimitate dal bordo nero del negativo, segno che la fotografia conserva la sua originale inquadratura – è una piacevole esperienza alla quale, tuttavia, è quasi impossibile arrivare senza un qualche tipo di precomprensione. Storicizzate e celebrate in retrospettive monografiche in tutto il mondo, le fotografie di Avedon sono icone di costume del nostro presente e costituiscono una parte integrante del bagaglio della cultura di massa degli anni ‘60, nonché un riferimento ancora attuale per le produzioni commerciali delle riviste di moda mainstream.

Per far luce sulla sensazione di déjà-vu che si presenta puntualmente davanti a Dovima con gli elefanti impeccabilmente abbigliata in Dior o al ritratto di Malcom X che sembra animarsi grazie all’uso del mosso fotografico, è spontaneo ripensare alle parole che Italo Calvino dedicava alla lettura dei classici letterari. Sulle pagine de L’Espresso del 1981, dove è stato originariamente pubblicato il suo Italiani, vi esorto ai classici – oggi edito da Einaudi – scriveva che d’un classico «ogni lettura è in realtà una rilettura» (Calvino 2015, p. 5). Questo non soltanto perché, come ammette, per imbarazzo si tende a non ammettere che in realtà è impossibile conoscere bene e a fondo tutti i classici (e si impone per necessità di etichetta sociale un prefisso reiterativo), ma anche perché per definizione il classico si pone in rapporto dialettico con le produzioni che lo precedono e che lo seguono. In entrambi i sensi le fotografie di Avedon non fanno eccezione, e a chi si appresta a visitare la sua mostra viene offerta una preziosa occasione di osservare «telescopicamente» nel passato un momento di formalizzazione di quegli stilemi del ritratto di moda che oggi percepiamo come ubiqui proprio perché sono divenuti estremamente diffusi.

I rimandi al passato non mancano: dagli omaggi espliciti, come quello al fotografo ungherese Martin Munkácsi, pioniere dell’ibridazione tra fashion photography e linguaggio del reportage – da cui Avedon eredita l’idea di ritrarre le proprie modelle intente a danzare, saltare e un generale senso di dinamismo della posa – fino agli echi più lontani legati alla tradizione del ritratto in studio, il cui padre nobile rimane Nadar, primo cultore dell’espressività del volto in un’epoca in cui l’evoluzione del mezzo richiedeva ancora tempi di posa non istantanei. Tracciare una parabola dell’eredità di Avedon in termini di impatto sulla contemporaneità non è un’impresa da poco, ma sicuramente le sue influenze arrivano fino alla stretta contemporaneità: dai più estrosi ritratti dalle pose esuberanti Jean-Paul Goude alle esplorazioni sul mosso di Paolo Roversi, ai ritratti in studio di Gian Paolo Barbieri.

Uno degli elementi centrali della grammatica di Avedon, cruciale nella sua produzione della maturità professionale, è la predilezione per la fotografia in studio e nello specifico l’uso del fondale bianco, da intendere come un dispositivo idealizzante di cancellazione del contesto. Il fondo astrae infatti il soggetto dal suo contesto di provenienza e ha il merito di costruire, per sottrazione, uno spazio alternativo che isola il personaggio dal suo ambiente e nel quale il fotografo è libero di esprimersi. Se sottoposte allo stesso trattamento livellante, infatti, tanto le modelle quanto le personalità politiche, dell’arte o del mondo dello spettacolo vengono raccontate unicamente tramite il loro volto e i loro abiti. Sarà proprio Avedon, citato da Susan Sontag, a definire il fondo bianco come un dispositivo capace di trasformare i soggetti in «simboli di loro stessi» (Sontag 2004, p. 161). Proprio perché sganciate dal loro rapporto con il contesto, le faces del bel mondo ritratto da Avedon possono infatti diventare dei volti-maschera da risignificare in maniera universale.

La ricerca insistita dell’espressività resa possibile dallo spazio controllato dello studio viene elevata a cifra stilistica e a marca di autorialità. Durante la lunga carriera di Avedon questo dispositivo verrà messo a frutto in tutte le sue tensioni commerciali, artistiche e politiche. Avedon stesso si definiva come un amante delle superfici – «Le mie fotografie non scendono sotto la superficie», si legge in uno dei pannelli di sala – ma la piattezza del fondo non implica superficialità o frivolezza di contenuto. A ben guardare, la serialità della tecnica di ripresa di Avedon nasconde una valenza politica più profonda, che emerge dal confronto incrociato tra le diverse serie e produzioni visibili in mostra. È sullo sfondo dello stesso fondale bianco davanti a cui vediamo Marilyn Monroe, i Beatles o Brigitte Bardot, che si stagliano anche le figure alienate dei quartieri suburbani del grande «occidente» americano tratte dalla serie documentaria American West, di cui è in mostra lo scatto dell’ex schiavo William Casby. Questa contaminazione che va dal ritratto di moda al documentario implica un importante allargamento della frontiera del ritratto in studio, in chiave di uguaglianza sociale?

Forse, la forza instancabile che rende «classica» l’opera di Avedon sta proprio in questa estrema sintesi formale che si rivela una formula di grande versatilità ed efficacia espressiva. Occorre tuttavia restituirle un po’ di distanza storica, soprattutto se si volesse tentare un’analisi femminista del suo corpus più legato al fashion. Gli scatti patinati di moda presentano modelle i cui corpi perfetti, per quanto colti in pose dinamiche, si piegano plasticamente alla volontà creativa del fotografo che ne dirige i movimenti. Ad uno sguardo troppo revisionista le fotografie di Avedon sembrerebbero lasciar trapelare una costruzione dei regimi di sguardo pensati per compiacere uno spettatore maschile e che non lascia spazio di azione alla soggettività femminile. In questo il contrasto con la mostra che si svolge in parallelo a quella di Avedon, dedicata a Maria Mulas (sorella minore del celebre Ugo) e che presenta una galleria di ritratti ambientati, intimi e situati, è lampante.

Perché dunque, considerare un classico le fotografie di Avedon? Per tornare a Calvino, un classico «provoca incessantemente un pulviscolo di discorsi critici su di sé, ma continuamente se li scrolla di dosso» (Calvino 2015, p. 9): nonostante tutti i discorsi critici che possano costellare la sua produzione e il suo indiscusso successo, l’opera di Avedon rimane piena di sorprese tanto per gli esperti che per il grande pubblico.

Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Perché leggere i classici, Einaudi, Torino 2015.
S. Sontag, Sulla fotografia, tr. it., Einaudi, Torino 2004.

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