È stato da poco pubblicato un numero speciale di Philosophy Today dedicato interamente al pensiero di Reiner Schürmann, un filosofo il cui portato politico, oltre che teologico e filosofico, non è ancora stato del tutto approfondito dalla critica specialistica, nonostante autori come Giorgio Agamben e Catherine Malabou si siano confrontati con il suo pensiero, e, nel contesto strettamente nazionale, l’edizione di Le Principe d’anarchie (1987) sia stata curata da Gianni Carchia. È proprio questa mancanza, o questa disattenzione, che ha spinto i curatori del volume, Francesco Guercio e Ian Alexander Moore, a curare una miscellanea che offre una panoramica impeccabile sulle diverse sfaccettature che caratterizzano il pensiero schürmanniano, di cui cercheremo, nel limite del possibile, di restituire la complessità del tracciato. Infatti, si domandano i curatori, «con la rinascita globale del nazionalismo e numerose forme di autoritarismo […] potrebbe essere che, a più di trent’anni dalla sua prematura scomparsa, sia giunto il momento per Schürmann?» (2024, p. 637). Oggi più che mai, come sottolinea Michael Heitz, nulla è cambiato e i fantasmi «sono più tenacemente vivi dei vivi, ci impongono leggi che durano più a lungo di quelle fatte dagli stati o dagli ideologi» (ivi, p. 642). Proprio per questo, studiare il pensiero di questo autore che a lungo ha riflettuto sui «fantasmi epocali» che ci governano, significa ripensare interamente la vita nelle macerie della politica occidentale. Infatti, leggere Schürmann significa comprendere, attraverso il suo confronto con autori quali ad esempio Eckhart e Heidegger, come vivere pienamente la “gioia errante”, dunque, come rendere possibile la vita fuori dal reticolo dei dispositivi governamentali e ordinamentali una volta compreso il loro operare macchinico. Ecco, se c’è qualcosa che il filosofo dell’ “identità peregrinale” e delle “hégémonies brisées” può insegnarci, forse più di altri, è come “vivere senza perché”, come liberarsi dalle leggi dei principi e degli scopi. Un proposito che oggi più che vezzo è urgenza e prerogativa.

L’incontro con il maestro turingio è sicuramente fondamentale, infatti Joeri Schrijvers sottolinea «il carattere simile a un evento dell’incontro con Dio, che rimarrà presente in tutto il suo lavoro [di Schürmann] successivo su Eckhart. Questo incontro non è mai una fusione facile e felice, è piuttosto “sconvolgente al massimo grado”» (ivi, p. 648) in quanto impone un ripensamento dell’intera esistenza. Schürmann non si stanca di interrogarsi «sulla questione dell’origine, né come principio né fine, né causa né destinazione, ma piuttosto come ursprunc – «l’ursprunc come anarchia spezza le catene dell’individuazione e mi libera da tutti gli attaccamenti e i legami, persino da Dio» […]» (ivi, p. 660). Si tratta, come nota Claudia Baracchi, di pensare un’articolazione fra pensiero e vita pratica, dunque di concepire una filosofia come forma-di-vita per giungere all’unione con il divino, un processo che implica anzitutto l’abbandono delle cose e di sé per abbracciare la possibilità di una identità pellegrina e vagabonda dell’essere: «La lettura completa di Eckhart mobilita un vasto repertorio di risorse per uscire dal soggetto, smantellandone simultaneamente l’autorità regale e legale, liberandosi dei suoi vincoli e prendendo congedo da esso. […] Liberarsi dai principi soffocanti, cioè liberare la vita nella sua intrinseca motilità, implica discontinuità, cessazione, decesso, abbandono» (ivi, p. 665). L’abbandono (gelassenheit), concetto fondamentale del pensiero eckhartiano che Schürmann analizza egregiamente, è una forma di restituzione. Nel distacco da sé stessi, nel rendere inoperoso l’operare delle immagini mondane, nel lasciare riposare le cose in sé stesse, dunque abbandonate, “ci si avvicina agli esseri così come sono”. Insomma, è soltanto attraverso il distacco, il non attaccamento, l’inappropriabilità, che l’essere umano può divenire ciò che era quando ancora non era.

Il confronto con Eckhart, che Heidegger stesso nominò Lese und Lebemeister (“maestro di lettere e di vita”), passa anche per un fondamentale processo di traduzione – “giusta”, parafrasando Emeline Durand, è quella traduzione che non soltanto si avvicina al significato originario voluto dall’autore, ma quella che apre più chiaramente una strada possibile per il nostro futuro – la quale, come nota acutamente l’autrice citando Schürmann, «non solo apre una “porta” sul significato del testo, ma è essa stessa il percorso che riporta alla fonte della verità»: «La traduzione fornisce il ritorno alla fonte dove ogni parola viene rinnovata» (ivi, p. 695). La traduzione ci pone di fronte a una relazione originaria con la lingua, relazione attraverso cui, riprendendo Schürmann, facciamo in modo che la realtà stessa, in un gesto attraverso cui le cose sono chiamate all’esistenza, ci appaia. Non solo il traduttore deve «essere perfettamente liberato se deve raccogliere la verità da un testo», ma la traduzione è anche l’esperienza paradigmatica della liberazione, poiché «quando la traduzione lascia emergere la verità nel testo, sperimenta questa verità già come lasciar-essere». Il processo di traduzione è quindi completo «quando l’apertura in cui gli esseri appaiono è liberata dal predominio della rappresentazione e del possesso» (ivi, p. 702). Dunque, «non si tratta di trasportare il significato da una lingua all’altra, ma di trasportarsi di fronte alla fonte della verità e di diventare testimoni di quella verità» (ivi, p. 701).

Come si evince, la relazione con il problema dell’origine è qualcosa di fondamentale nel pensiero schürmanniano. Al tema di un’origine anarchica è dedicata la rilettura del pensiero heideggeriano in Le Principe d’anarchie. Raoni Padui, ad esempio, nel suo contributo si sofferma proprio sul problema dell’anarchia e dell’a-priori pratico. Il dominio dell’anarchia nella lettura di Heidegger di Schürmann ha lo status di un trascendentale, di una condizione di possibilità di qualsiasi principio. O, più precisamente, poiché è più profondo di qualsiasi principio, non è di per sé un principio e forse è la condizione dell’impossibilità di qualsiasi principio, può più appropriatamente portare il titolo di un quasi-trascendentale (ivi, p. 760). Schürmann segue Heidegger nell’affermare che ogni epoca si è organizzata a partire da un principio egemonico che condiziona le conoscenze e le pratiche degli individui. Tali principi operano all’interno delle condizioni di possibilità di una certa epoca, e le dominano.

Ma Heidegger, sostiene Schürmann, è interessato a uno strato più profondo della metafisica, cioè alla condizione di possibilità della metafisica stessa, una condizione che non è di per sé metafisica. […] Heidegger sembra essere alla ricerca di un fondamento trascendentale più profondo, ma uno che non si rivelerà un fondamento, bensì lo spazio stesso su cui ogni fondamento in quanto tale è eretto. Da qui la giustificazione nel parlare di un’anarchia trascendentale (ivi, p. 761). 

Questo fondo è, appunto, anarchico senza per questo essere un principio o un fondamento, qui: «La metafisica raggiunge il proprio esaurimento dei principi, in cui l’infondatezza dietro ogni fondamento viene finalmente rivelata» (ibidem). Dunque, come Padui sottolinea, si scopre che ogni principio metafisico è stato istituito sullo sfondo di una mancanza totale di principio: «Ogni principio, ogni Grund, è eretto per mascherare un Abgrund più profondo» (ivi, p. 762). È a partire da tali riflessioni che viene introdotto il discorso dell’ a-priori pratico, il quale «implica una sorta di inversione di questa priorità metafisica della teoria sulla pratica» (ivi, p. 763): un certo modo di essere deve essere praticato affinché sopraggiunga la comprensione, e non il contrario. «Questa dipendenza del pensiero da un modo di vivere, questa priorità di un modo di vivere o di un comportamento sulle questioni teoriche, è ciò che Schürmann intende per a priori pratico» (ivi, p. 764).

Queste stesse riflessioni di carattere genuinamente filosofico e teologico, che hanno non poche implicazioni all’interno del pensiero politico, operano come presupposti per comprendere come il pensiero di questo filosofo si sia confrontato anche con la pratica pittorica, in particolare quella di Louis Comtois, suo compagno. A tali questioni Monica Ferrando ha dedicato delle riflessioni importanti, degne di nota anche perché se la relazione fra Schürmann, Eckhart e Heidegger è cosa nota per gli addetti ai lavori, nonostante continui a suggerire interrogativi senza esaurire il suo portato rivoluzionario, sicuramente meno battuta è la strada che conduce alla pittura e allo studio della luce e della materia, sebbene, come lo stesso filosofo sintetizza egregiamente: per rispondere alla domanda su come dobbiamo dipingere è necessario prima fare i conti con un’altra domanda, e cioè quella su come pensiamo. Nella pittura, nel suo tacito accadere senza perché – «il paesaggio è là, senza un perché», dirà il giovane Schürmann de Le origini (1977) riprendendo un’affermazione di Cézanne – è possibile ancora scorgere la presenza impetuosa e imprevedibile del divino, il quale non può essere nominato non per un difetto del linguaggio ma proprio in quanto già presente, «un divino le cui figure rimangono presenti come forme del vuoto, impronte, calchi, abbandono, perdita».

Fondamentale è qui l’esperienza del colore e della luce, il colore come strumento e passione della luce, un’astrazione, quella di Comtois, che liberata da vizi formalistici riesce a vedere l’originario, così come Schürmann lo vede in Heidegger. «La materia del pittore, metafora della materia del mondo, è un pensiero di luce, un’immagine consapevole della relazione che la luce ha con le cose» (ivi, p. 875). Difficile sintetizzare la complessità che si cela dietro il pensiero e la scrittura genuina di Schürmann, ci siamo limitati a mettere qualche punto, qualche informazione per guidare il lettore o lo studioso che voglia avventurarsi nella grammatica del pensiero di un filosofo in cui più che punti, ci sono doppi punti e punti e virgola. Ecco, se c’è un grosso pregio che il volume curato egregiamente da Francesco Guercio e Ian Alexander Moore ha, è quello di restituire questa grammatica. Esso si presenta come uno strumento utile, probabilmente indispensabile, non soltanto per avvicinarsi o approfondire il pensiero di questo filosofo ma, attraverso di lui, comprendere finalmente che: “Ecco la vera sconfitta: avere delle origini”.

Reiner Schürmann oggi, vol. 68 di Philosophy Today, a cura di Francesco Guercio e Ian Alexander Moore, 2024.

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