Re Lear

Re Lear di di Giorgio Barberio Corsetti, andato in scena al Teatro Argentina di Roma con un convincente Ennio Fantastichini nella parte del vecchio re che divide il suo regno tra le tre figlie, non può non rimandare alla messa in scena dello stesso dramma che Luca Ronconi portò all’Argentina nel 1995, con Massimo De Francovich nella parte di Lear e Corrado Pani in quella del Folle. Il confronto è necessario, non tanto perché si tratta di due grandi registi del panorama teatrale italiano (e non solo) contemporaneo, quanto perché il confronto ci aiuta a capire fino a che punto le due messe in scena siano state il sintomo di distinte atmosfere culturali (e politiche) in Italia.

Nel 1995 si era agli inizi del ventennio berlusconiano; nel 2017, invece, Barberio Corsetti sembra in qualche modo fare riferimento all’agonia di questo sistema politico. Nello spettacolo di Ronconi i personaggi vestivano abiti quasi metafisici, astorici, che facevano pensare a certe figure “mitiche” dei quadri e degli affreschi di Sironi. Nello spettacolo di Barberio Corsetti l’apparenza esteriore dei personaggi torna a essere storicizzata, ma al presente: i personaggi indossano vestiti sgargianti, dall’eleganza vistosa e un po’ “cafonal”, tipica dei potenti dei nostri tempi. Lo spettacolo di Ronconi rappresentava la fine di un patriarca, che era anche il tramonto di una forma di potere fondato sull’autorità dell’anziano. Non a caso il Lear impazzito dell’ultimo atto nello spettacolo di Ronconi finiva denudato: era un “re nudo”. Si trattava, in fondo, di un Lear, molto vicino al Ran (1985) di Akira Kurosawa: Lear, o il suo equivalente nel Giappone medievale, è un grande capo militare che con mano ferma ha saputo reggere o riunire un regno e ora si appresta a cedere lo scettro, spartendo equamente il potere tra gli eredi.

Niente di tutto ciò si ritrova nello spettacolo di Barberio Corsetti. Il Lear interpretato da Fantastichini impazzisce anche lui: nonostante qualche licenza linguistica – molto efficace per quanto riguarda la parte del Folle, interpretato da un ottimo Andrea Di Casa – e un lavoro molto intenso sulla drammaturgia, lo spettacolo resta fedele al testo originale. Lear-Fantastichini impazzisce; nel passaggio dalla lucidità alla follia, non arriva però a capire il mondo che lo circonda e conferma al contrario l’immagine autoriferita che si è costruito del mondo. Per comprendere in maniera adeguata il progetto drammaturgico di Barberio Corsetti, bisogna tornare alla scena d’apertura dello spettacolo, la festa durante la quale Lear annuncia la spartizione del regno tra le tre figlie. C’è uno schermo al centro della scena: il pubblico vede frammenti della festa prima che si alzi il sipario. Quel video resta, però, anche dopo che il sipario si è alzato. Si direbbe addirittura che il video – sempre presente nei lavori di Giorgio Barberio Corsetti e così centrale per la sua concezione della drammaturgia – in questo spettacolo, almeno all’inizio, cambi di funzione rispetto all’uso che il regista ne ha fatto in spettacoli precedenti. Con qualche approssimazione si potrebbe dire che qui il video passa dall’essere all’inizio dello spettacolo elemento perlopiù diegetico a essere alla fine elemento extra-diegetico. Nella festa, infatti, il vecchio re si diverte a riprendere le belle figlie, la cui immagine passa in tempo reale sullo schermo: il video qui potrebbe essere la scusa per un gioco di società, a metà strada tra il filmino familiare e la pulsione del voyeur.

Lear è, lo sappiamo bene, un uomo che crede più all’apparenza delle cose che alla loro sostanza: disereda Cordelia (una efficace Alice Giroldini), la figlia che non gli fa dichiarazioni d’amore iperboliche. Occorre chiedersi, dunque, che cosa veda Lear nelle immagini delle figlie, che anticipano e amplificano la retorica dei loro discorsi tanto amorevoli quanto falsi. Cosa si nasconde dietro questa debordiana “società dello spettacolo” che il re ha messo in piedi a suo personale uso e consumo? Si è detto che c’è qualcosa di fortemente erotico, dunque incestuoso, in questa messa in scena. Ma le figlie non sono solo le amanti, vere o virtuali, del vecchio re: l’opacità della loro relazione si chiarisce, o forse appare nella sua autentica opacità, mano a mano che la storia procede. E lo schermo da elemento diegetico diventa extra-diegetico. Lear – ormai rifiutato dalle figlie ed errante nelle selve del suo regno – si muove in un mondo (la scena) che ha come sfondo (uno schermo ingrandito, che coincide con il fondale) due enormi immagini delle figlie “cattive”, Ctoneril e Regan (le bravissime Francesca Ciocchetti e Sara Putignano), quelle che si sono spartite il suo regno e ora lo vogliono ridurre all’impotenza. Sono figure erotiche, con le grandi cosce semi-aperte, ma anche materne. E il gesto di entrare e uscire da una porta che corrisponde alla loro vagina, punto in cui le immagini delle due donne coincidono in un’unica figura femminile, è un gesto simbolico tanto di possessione erotica quanto di rientro nel grembo materno. I due desideri hanno d’altronde una matrice comune secondo Sándor Ferenczi.

Cogliamo ora il significato del Lear di Barberio Corsetti e il senso che ha l’uso del video in questo spettacolo: l’immagine mostrata è quella di un potere maschile che, dietro le apparenze di un desiderio di conquista sessuale illimitata, nasconde il bisogno profondo di ritrovare una dimensione matriarcale – fantasticata, per non dire allucinata – dove il femminile rappresenta una fonte di conferma assoluta, dunque un potere illimitato.

Re Lear secondo Giorgio Barberio Corsetti è il dramma del narcisismo del potere (maschile) che trova soddisfazione solo nel riconoscimento incondizionato di un potere ancora più grande e forte, quello donativo e sorgivo del femminile. In questa prospettiva il gioco delle parti tra Cordelia e le sorelle potrebbe rovesciarsi: le “buone” potrebbero essere proprio loro, che una volta ottenuto il potere si sono rivoltate contro il narcisismo del padre. Cordelia invece, tornata in patria per restituire il regno al padre con le armi, affida la sua ultima immagine da viva a una posa propagandistica di guerriera accanto a un padre ormai vecchio e pazzo. È lei allora la figlia “cattiva”, quella che fino all’ultimo istante conferma il desiderio narcisistico del padre, senza curarsi delle conseguenze “morali” di questa scelta. L’errore delle presunte sorelle “cattive” è semmai quello di cercare nel figlio bastardo di Gloucester Edmund (un istrionico Francesco Villano) un sostituto della seduzione narcisistica esercitata dal padre, di non essersi liberate fino in fondo del suo fantasma.

L’ultima immagine video – che si rivolge esclusivamente al pubblico, non ai personaggi in scena, e a cui il regista in tutta evidenza affida la sua “morale della favola” – è quella di uno scheletro sormontato da una corona: la corona cala lentamente dal teschio allo scheletro, mentre strisce di colore come le metastasi di un tumore invadono il cadavere. È un invito a liberarsi una volta per tutte da quella forma di potere, di non servirsene, di non credere che lo si possa rovesciare dall’interno. In questo modo, Barberio Corsetti fa del Re Lear una implicita “tragedia repubblicana”.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Mezzi senza fine, Bollati Boringhieri, Torino 1996.
G. Debord, La società dello spettacolo, Baldini&Castoldi, Milano 2001.
S. Ferenczi, Thalassa, Cortina, Milano 1993.

Share