Maid (Metzler, 2021).

Nel quarto episodio della miniserie Maid (Metzler, 2021) la protagonista, Alex, scrive nel suo diario: «Pulire la casa della gente significa passare ore a spolverare mobili con cui mi pagherei l’università, a lavare parquet con cui mi potrei comprare una casa. È difficile non volere le loro cose, la loro vita. No, volere è una parola troppo morbida. Bramare la loro vita». Una simile riflessione attraversa anche i personaggi del film Parasite (Bong Joon-ho, 2019), in cui troviamo la medesima polarizzazione sociale, la stessa visione dicotomica che ipostatizza il povero nella sua condizione di invidioso, frustrato dal desiderio di rivalsa e avvelenato dal rancore. Con una differenza: mentre la famiglia coreana non può fare a meno di trasformare il risentimento in odio reattivo e violento, Alex riesce a convertire il suo “affetto risentito” in un sentire affermativo e creativo. Alex reagisce, si ri-solleva, cambia la realtà. Afferma la vita. Trasforma, più precisamente, il risentimento in rabbia politica.

Questa operazione di riconversione, rivalutazione e rivendicazione della rabbia come esperienza politica costituisce la tesi principale dell’ultimo lavoro della filosofa colombiana Laura Quintana, Rabia. Afectos, violencia, inmunidad (Herder 2021), indubbiamente una delle pensatrici attualmente più interessanti in Sud-America. Il tentativo di Quintana, lo dico qui in termini assai generali, è ricollocare la rabbia al di fuori del pensiero dialettico, che oggettivizza le emozioni nel manicheismo delle categorie (buono-cattivo, giusto-sbagliato, bello-brutto ecc.). Attingendo da Spinoza, Nietzsche, Deleuze, la rabbia viene inquadrata all’intero della teoria degli affetti, ripensata in una prospettiva vitalista.

Definire la rabbia come affettività significa risignificare il termine affetto prendendo le distanze dalla monopolizzazione teorica che di questo ne hanno fatto il capitalismo e i suoi critici. Effettivamente il pensiero neoliberale concepisce la rabbia in due modi: come sentimento o emozione, in ogni caso confinata in uno spazio individuale. Secondo Quintana questa lettura risulta riduttiva in quanto si riferisce a una comprensione soggettivizzante del sentire che imprigiona la persona sulla propria interiorità. Quando perdiamo di vista che sentimenti e emozioni hanno a che fare con forze prodotte nel mondo sociale – esattamente ciò che fanno le economie affettive – inizia una operazione di depoliticizzazione, patologizzazione, psicologizzazione degli affetti. «Quando parlo di affetto mi riferisco a forze che agiscono nel mondo sociale» (Quintana 2021, p. 29). Si tratta di una tesi interamente nietzscheana: l’affetto è anteriore al soggetto e creatore di soggettività. È inteso come una forza che “si produce” nelle relazioni concepite come pratiche di riconfigurazione e articolazione dei corpi. Gli affetti riguardano ciò che succede a un corpo, quello che il corpo sente in una dimensione relazionale: dipendiamo dal modo in cui il corpo dell’altro “ci affetta”, dalle molteplici forme “dell’essere affettati”.

L’affetto dunque è ancorato a un ordine del mondo, alla dimensione dell’esteriorità, a quella che Quintana ha precedentemente chiamato una politica dei corpi (Quintana 2020). L’inquadramento della rabbia all’interno del contesto affettivo-vitalista orienta l’analisi secondo la bussola di ciò che è vitale o meno per un corpo. «La rabbia può essere letta semplicemente come affetto reattivo verso uno stato di cose percepito come ingiusto […]. E questa reazione può manifestarsi in diversi modi: può essere sentita in maniera solitaria e dar vita a forme di risentimento (I); può esprimersi con altri in desideri di vendetta (II), […] può elaborarsi collettivamente come lotta (III)» (Quintana 2021, pp. 302-303). Quintana rintraccia e analizza diversi piani della rabbia: il primo corrisponderebbe al solipsismo iracondo, inefficace tanto dal punto di vista pratico; il risentimento è una ferita purulenta, come direbbe Nietzsche.

Il risentimento negativo, regressivo, distruttivo è prodotto da condizioni storiche e sociali che hanno a che fare con le dinamiche competitive e difensive del capitalismo, con la temporalità serrata del mercato, con la logica immunitaria dell’amico-nemico che vede rischi, minacce e vittime dappertutto. Il risentimento è ancorato all’impotenza alimentata dall’idea che “nulla cambia”, fissato sulla sofferenza del torto subito, di un passato immobile che brucia e pesa come qualcosa che non si può rielaborare. Tuttavia, ci ricorda Quintana, il risentimento è una zona grigia, abitato da diverse sfumature alcune delle quali portano a ripensare il danno nella prospettiva del merito: “Io non merito di subire” costituisce la prima affermazione di presa di coscienza di un corpo che non si chiude nella contemplazione della sua ferita ma che assume un’attitudine di resistenza. Quintana qui dialoga con il sopravvissuto alla Shoah Jean Amery, che non invita a perdonare o a dimenticare ma a imparare a convivere con le proprie cicatrici e a interrogarle senza sosta.

Del resto dal punto di vista etimologico “risentire” assomiglia a “resistere”: restare lì dove ho sofferto rifiutandomi di dimenticare secondo una logica della memoria che mira a riconfigurare, a risignificare il danno e quindi anche l’affetto. Fare valere l’esperienza del dolore non deve per forza condurre a una politica della vendetta ma può organizzare, strutturare una rabbia degna. Si tratta di una tesi molto forte soprattutto tenendo in considerazione il contesto (Colombia) nel quale si colloca l’autrice: una terra che si affanna per dimenticare e per disfarsi di tutte le scomode verità seppellendole insieme alla sua lunga storia di violenza e guerra. Senza dubbio la memoria è anche un luogo di conflitto e Quintana lo dimostra portando esempi concreti come le conseguenze politico-affettive dell’accordo di pace con la Farc (2016), la questione de las madres de Soacha.

Se torniamo all’espressione rabbia degna apparirà per certi versi come un assemblaggio teorico quasi ossimorico. Quando la rabbia si converte in lotta si incrocia immediatamente con la condanna unanime verso qualsiasi atto di protesta non-pacifico e il suo immediato additamento come violenza (e di conseguenza la sua invalidazione). Questa facile equazione rabia = vandalos rappresenta la comoda via d’uscita della narrazione neoliberale che ammette esclusivamente una partecipazione  pacata, imparziale, distante, razionale, dis-affettata. Nella difesa di una docile razionalità è contenuta buona parte della cecità di filosofi e intellettuali. Immediato, qui, il riferimento alle proteste che hanno infuocato la Colombia nel maggio nel 2021.

La posizione “anti-rabbia” da un lato non tiene conto del contesto sociale, politico e economico dentro il quale essa si produce e dall’altro aspira a un ambiente politico incontaminato che non solo non può esistere ma che non dovrebbe essere nemmeno anelabile. E questa aspirazione appare contraddittoria specie in Colombia, dove le forme di conflitto (micro e macro) che affliggono i corpi e le loro esperienze dal 1964 hanno creato una sorta di insensibilità selettiva, di anestetizzazione alla violenza. Sarebbe più onesto, afferma l’autrice, adottare il termine anti-violenza, superando così qualsiasi tipo di dicotomia assiomatica e normativizzante e mostrando le tensioni e le sfumature. Ma allora abbiamo diritto di arrabbiarci? Sì: se si tratta di una rabbia organizzata che crea una politica emancipatoria, affermativa, trasformatrice, collettiva, solidale. Quintana appella questa rabbia in due modi: poetica e politica, due termini di fatto intercambiabili in quanto la rabbia politica è sempre poetica (e viceversa). La rabbia politica rompe con il consensualismo ossia con il totalitarismo del reale che nega esperienze altre, nuove forme di essere e che limita il corpo nelle sue virtualità. La rabbia politica, in questo senso, segnala una rivoluzione estetica.

Attraverso una scrittura situata nell’urgenza dell’oggi, non immunitaria, a volte intimista a volte erudita il libro della Quintana accumula strati di esperienze eterocroniche, costellazioni di vari registri, tanto personali quanto letterarie in un continuo dialogo con la situazione attuale colombiana. Un libro che fa parlare molte voci, in cui i filosofi interpellano i volti del femminismo intersezionale o di persone (i tassisti bogotani) che difficilmente si incontrano nella scrittura accademica. Quintana riesce a dare vita a un pensiero “affettato”, a una filosofia che si arrabbia e che rinnova l’invito a sollevarsi di fronte alle ingiustizie reiterate. Parafrasando Foucault: ci arrabbiamo, è un fatto.

 

Riferimenti bibliografici
L. Quintana, Política de los cuerpos, Herder, Barcelona 2020.
M. Foucault, Inutile de se soulever ? in Dits et écrits, II, 1976 – 1988, Quarto Gallimard, Paris 2001.

Laura Quintana, Rabia. Afectos, violencia, inmunidad, Herder, Barcelona 2020.

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