Il volume che quarant’anni fa introdusse il concetto di “pensiero debole” presentandone una prima testimonianza (11 saggi dichiaratamente eterogenei) si apre con una mappa delle principali tendenze del dibattito filosofico che secondo Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti, curatori del libro, aveva caratterizzato, rispettivamente, gli anni sessanta e settanta del secolo scorso. In sintesi, il primo dei due decenni si sarebbe impegnato nella ricerca di una nuova “fondazione” dei saperi umanistici, suddivisa in una linea “strutturalista” e una “fenomenologica”. In entrambi i casi si sarebbe trattato di desostanzializzare l’idea di soggettività umana risolvendola in un fondamento impersonale (lo strutturalismo) o “più fluido e in divenire” (la fenomenologia). Originale o alternativa che fosse, tuttavia, per i due autori si trattava pur sempre di una fondazione, cioè di un gesto teorico in ultima analisi reificante e metafisico.
Gli anni settanta avrebbero reagito a questo progetto di ridefinizione del soggetto con la diagnosi di una generale “crisi della ragione”, giocando la carta di una decostruzione radicale dell’idea stessa di soggettività (e sarebbe il caso di Foucault), ovvero riconfigurandone l’istanza sul piano di una vocazione “politica” (in un senso molto ampio), intesa come l’ultimo territorio nel quale una ragione in crisi di identità avrebbe potuto escogitare strategie efficaci per fronteggiare gli attacchi dell’irrazionalismo nelle sue diverse forme. In quest’ultima postura teorico-pratica Vattimo e Rovatti riconoscevano il contributo di autori molto diversi come Nietzsche e Benjamin, Heidegger e Wittgenstein o, per dir meglio, il portato “politico” delle letture che di questi autori sarebbero state proposte dalla filosofia dominante di quegli anni «producendo ogni sorta di impasti e di miscele» (Rovatti, Vattimo 1983, p. 8), nessuno dei quali, alla fine, davvero dissociabile da un residuo fondazionalista di tipo metafisico.
L’alternativa del “pensiero debole” fu quella sintetizzata da Vattimo nella sua particolare traduzione-interpretazione del concetto heideggeriano di Verwindung. La metafisica non può farsi oggetto di una vera e propria Überwindung, di un genuino superamento, ma solo di una ripresa-distorsione. Essa, infatti, è qualcosa da cui ci si può solo rimettere come ci si rimette da una malattia, ma è anche qualcosa – una tradizione attiva – a cui in un modo o nell’altro dobbiamo continuare a rimetterci, nel senso che non possiamo smettere di ri-pensarla poiché è all’interno di quella tradizione che ci siamo già sempre ritrovati né potremmo far altro che riappropriarcene, per quanto è possibile, in una interminabile Erörterung, in un infinito e disincantato riposizionamento interpretativo.
Stando così le cose, appare del tutto evidente che il “pensiero debole” non avrebbe mai potuto «diventare la sigla di qualche nuova filosofia» (ivi, p. 10) – come del resto è attestato dall’elevata eterogeneità dei contributi raccolti nel volume – potendo solo mirare a intonare la riflessione filosofica in genere sul registro etico “remissivo” teorizzato da Vattimo. Un modo di pensare, più che un insieme di contenuti di pensiero: uno stile, una retorica.
Utilizzando un vocabolario diverso da quello di quegli anni, oggi diremmo che il “pensiero debole” assumeva come ambito esclusivo del filosofare un campo problematico che potremmo definire iper-culturalista. L’estensione e i confini del filosofare, infatti, non avrebbero potuto che coincidere con l’ordine di ciò che viene trasmesso per via culturale (e in primo luogo per via linguistica) senza riconoscere alcuna pertinenza alle basi materiali di questa trasmissione, sempre imputabili, a quanto pare, di riduzionismo e di reificazione metafisica. La parola italiana “tradizione” contiene il nucleo duro, e l’impegno precipuo, di questo progetto iper-culturalista in quanto il “dire” del “tràdito”, il medium primario della trasmissione – il linguaggio – viene assunto come un dato di fatto assolutamente caratterizzante e non ulteriormente risalibile. In nessun modo la domanda circa la sua origine – com’è sorto e come si è evoluto il “dire” degli umani? Quanto dipende da fattori strettamente culturali e quanto da vincoli biologici, anatomici e perfino da elementi casuali? – avrebbe dovuto turbarne l’insuperabile originarietà.
E tuttavia, non sarebbe per caso anche questa una postulazione fondativa, per di più largamente arbitraria e preventivamente immunizzata da ogni conferma – o confutazione – sperimentale? Non sembra che i contributori del volume inaugurale del Pensiero debole siano mai stati sfiorati da questo sospetto. Ma per spiegarci, oggi, una rimozione così totale e così sistematica, la motivazione che rileggendo il libro sembra imporsi è che essi si erano fatti del loro antagonista – e cioè del “pensiero forte” – un’immagine molto semplificata (le presunte reificazioni della metafisica) e discutibile (la presunta ambizione fondazionalista del trascendentalismo).
Prendiamo il caso (esemplare, come si vedrà) di Umberto Eco e del suo contributo intitolato L’antiporfirio (ivi, pp. 52-80). Il saggio contiene una pars destruens, molto brillante e finemente argomentata, e una pars construens sotto ogni profilo talmente sproporzionata rispetto alla prima da giustificare il sospetto che l’autore l’avesse modellata per l’occasione per poi sostituirla con un una meditazione più appropriata. Il che accadde, puntualmente, una quindicina di anni dopo, con il decisivo Kant e l’ornitorinco (1997).
Nella pars destruens Eco procede a demolire quella che a suo giudizio sarebbe una classica “prova di forza” del pensiero (un pensiero del linguaggio, nella fattispecie): la costruzione di una metateoria capace di spiegare senza residui in che modo una lingua-oggetto – costruita nel rispetto di omologie qualificanti con la lingua naturale – procederebbe a classificare e connettere tutti i significati in essa censiti. Dopo aver chiarito che l’analisi si sarebbe limitata alla “componente semantica” del lavoro linguistico, Eco aggiunge, quasi si trattasse di una stipulazione marginale, che «non ci interessa, in questa sede, il destino estensionale delle espressioni di tale lingua; e cioè se e come essa possa essere usata per designare stati di un mondo reale o possibile» (ivi, p. 54).
Un pensiero forte, dunque, non sarebbe tale in quanto aspirerebbe a spiegare, o anche solo a descrivere adeguatamente, il processo della denotazione, vale a dire il modo in cui le espressioni linguistiche ritagliano, classificano e sistematizzano il mondo dell’esperienza; un pensiero forte sarebbe tale in quanto di questo processo mirerebbe a esplicitare senza residui nient’altro che il dispositivo classificatorio interno, cioè la sua “dimensione intensionale”, dominabile grazie a un’appropriata metateoria.
Nella sua Isagoge il plotiniano Porfirio (III secolo d.C.) si sarebbe impegnato in un tentativo del genere, e nelle prime 22 pagine del testo Eco lo demolisce, come ho detto, in modo penetrante e raffinato, arrivando a questa significativa conclusione: «L’albero dei generi e delle specie [cioè il dispositivo classificatorio intensionale formalizzato da Porfirio], comunque venga costruito, esplode in un pulviscolo di differenze, in un turbine infinito di accidenti, in una rete non gerarchizzabile di qualia». Il che, per Eco, significa che il dizionario perfetto cui mirava Porfirio «diventa un’enciclopedia, e lo diventa perché di fatto era un’enciclopedia che si ignorava, ovvero un artificio escogitato per mascherare l’inevitabilità dell’enciclopedia» (ivi, pp. 73-4). Tradotto: l’albero di Porfirio era un artificio metateorico intensionale escogitato per mascherare la costitutiva estensionalità di ogni semantica meritevole di questo nome.
Ma occuparsi dell’estensionalità della semantica significa non poter più aggirare la questione del riferimento, cioè il fondamento dell’attività simbolica tipica dell’essere umano. E ho evidenziato la parola “fondamento” per porre l’accento su una delle bestie nere (epistemologiche) del “pensiero debole”. Talmente nera, la bestia, che Eco si guarda bene dall’evocarla anche da lontano, ricorrendo all’idea di «enciclopedia come labirinto» (ivi, pp. 74-79): la fragile pars construens del suo articolo. La quale di “costruttivo” ha solo il seguente punto: che la semantica di una lingua naturale non potrebbe mai somigliare a un dizionario perché non rispecchia il “funzionamento” di una lingua e ne rispetta, piuttosto, «la vita» (ivi, p. 74).
Dove è rilevante che la “vita” di una lingua, cioè il suo intreccio inestricabile con l’accadere imprevedibile dell’infinita contingenza delle vicende umane, viene ingegnosamente convertito da Eco in un gioco interminabile di rimandi reciproci tra le unità di una lingua. Un gioco di cui il massimo che si può dire è che «si apre continuamente al di fuori di se stesso e continuamente su se stesso si rinchiude» (ivi, p. 75). Il ricorso all’immagine dell’enciclopedia-labirinto, insomma, non è altro che un (fragile) escamotage per tenersi al riparo dal problema reale che sorge nell’ambito di ogni autentica semantica, vale a dire che lo studio della vita delle lingue non potrebbe in nessun modo accantonare il problema dell’origine del linguaggio, della sua evoluzione e del suo intreccio costitutivo con la prassi umana.
Ora, questo aspetto decisivo di una semantica linguistica riconduce, senza scampo, al fondamento stesso dell’attività simbolica umana. A un elemento talmente problematico, cioè, che nel 1866, come tutti sanno, la Società Linguistica di Parigi si convinse di escludere per decreto dalla sua rivista tutti i contributi dedicati all’origine del linguaggio. Eco aveva già accolto, e meglio formalizzato, questo statement alquanto dogmatico nel suo classico Trattato di semiotica generale (1975). E tuttavia, da studioso rigoroso e non conformista qual era, lo avrebbe radicalmente rimesso in discussione nel libro del 1997 che ho ricordato prima (e che giustifica l’esemplarità che ho attribuito al suo caso). Il nome del filosofo che vi compare, cioè Kant, ci spiega molte cose – anche se Eco avrebbe potuto rivolgersi a un prezioso testo, Ricognizione della semiotica, pubblicato nel 1977 da Emilio Garroni, che aveva già chiarito limpidamente (vent’anni prima) in che modo si dovesse porre la questione.
Solo una filosofia critica come quella kantiana, argomentava Garroni, avrebbe saputo disporre la strumentazione epistemologica necessaria per porre il problema fondativo di una semantica linguistica, benché poi sulla questione delle origini avrebbe dovuto limitarsi a un quadro necessariamente congetturale e in ultima analisi solo speculativo. All’epoca i progressi della paleoantropologia, dell’archeologia cognitiva e delle neuroscienze erano appena agli inizi della potente impennata che negli ultimi quarant’anni avrebbe condotto, tra le altre cose, a una piena rivalutazione delle ricerche sull’origine e l’evoluzione del linguaggio umano (oggi intense e vivacissime), accompagnata da analoghi approcci naturalizzati a numerosi ambiti delle scienze umane, a partire dalla riflessione filosofica specificamene dedicata al primato della trasmissione culturale nelle vicende umane.
La conclusione che se ne può trarre è che forse il riannodarsi di un legame per molto tempo interrotto o reciprocamente sabotato tra filosofia e scienze sperimentali, oggi evidentissimo e praticato con successo in molti campi, si ricollega più facilmente al quadro ri-fondativo, strutturalista e fenomenologico, che i curatori del Pensiero debole avevano riferito agli anni sessanta del secolo scorso che non alle successive peripezie della riflessione filosofica, deboli o forti che esse siano state.
Riferimenti bibliografici
U. Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975.
Id., Kant e l’ornitorinco, Bompiani, Milano 1997.
E. Garroni, Ricognizione della semiotica, Officina Edizioni, Roma 1977.
Gianni Vattimo, Pier Aldo Rovatti, a cura di, Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983.