A marzo mi sono trasferita nel quartiere di Monte Sacro, dove quasi cinquant’anni fa, sotto le finestre della casa da cui sto scrivendo, mio padre, appena ventenne, ebbe la fortuna di incontrare Rino Gaetano e quella ancora più grande di diventare suo amico. Entrambi suonavano, mio padre la batteria e Rino la chitarra. Non servì molto altro a tenerli uniti per quasi dieci anni. Vivere in questo quartiere per me significa rivivere continuamente quel periodo. Qualche tempo fa sono salita sulla linea del 60, citata da Rino nella canzone Tu forse non essenzialmente tu, contenuta nel suo primo album, Ingresso libero (1974).

Avrei bisogno sempre di un passaggio ma conosco le coincidenze del 60 notturno lo prendo sempre per venir da te

Mentre tornavo verso Piazza Sempione ho iniziato a osservare le espressioni affaticate della gente, che non sembrava desiderare altro che tornare a casa. Ecco, mi sono detta, deve essere andata proprio così quando Rino iniziò a immaginare Ma il cielo è sempre più blu. Non poteva che nascere qui, su questo autobus, in un quartiere popolare di Roma. A questo pensavo mentre cominciavano a risuonarmi in testa le parole di quel brano, uscito come singolo nell’estate del 1975.

Chi vive in baracca, chi suda il salario / Chi ama l’amore e i sogni di gloria / Chi ruba pensioni, chi ha scarsa memoria / Chi mangia una volta, chi tira al bersaglio / Chi vuole l’aumento, chi gioca a Sanremo / Chi porta gli occhiali, chi va sotto un treno / Chi ama la zia, chi va a Porta Pia

Rino, accompagnandosi con la chitarra, canticchiò al telefono queste strofe a mio padre, che decise di raggiungerlo a casa per ascoltarle meglio. Si tratta di un grido disperato, forse addirittura di un grido di aiuto, eppure la percepiamo come una canzone allegra, piena di speranza, proprio come Rino la concepì. Ma ascoltandola attentamente ci accorgiamo che descrive esistenze al margine, tentativi di sopravvivenza, espedienti di vita. Quando partecipò con questo brano al programma Angeli e cornacchie, un gruppo di persone gli girava attorno a simulare quella molteplicità di esistenze da lui citate. Tra quelle figure che si muovevano in studio c’era anche mio padre.

Il senso di Ma il cielo è sempre più blu sembra essere questo: ognuno, prigioniero della propria condizione umana, è impegnato nel cercare una via d’uscita. In questo groviglio di storie però si fa strada una certezza: il cielo è uguale per tutti. Sarà per questo che il 15 marzo di un anno fa l’Italia intera ha scelto di cantare questo brano, che in quel momento sembrava ripeterci: insieme possiamo salvarci. Mio padre era sceso in giardino e si guardava intorno incredulo. Davvero quella era la stessa canzone che più di quarant’anni prima il suo amico Rino gli aveva cantato al telefono? Non potevo rimanere indifferente di fronte a quella espressione. Solo ora, ripensando a quel momento, mi tornano in mente le parole di Walter Benjamin in Napoli porosa: «Questa musica è residuo dei giorni di festa passati e, insieme, preludio di quelli futuri» (Benjamin 2020, p. 24).

Ed è stato proprio attraverso quella musica che io e mio padre abbiamo iniziato a scrivere, facendo entrare luce nelle crepe della sua memoria. La Recherche di Proust non è poi un tentativo disperato di provare a salvarla? Quella di mio padre era frammentata e infatti non ha subito accolto la mia proposta, sostenendo di non ricordare molto di quegli anni. A me allora non restava altro che abbracciare il tempo perduto dei suoi ricordi con Rino e provare a percorrere insieme la strada di un tempo diverso: un tempo ritrovato e per questo inedito.

Anche le mie letture sembravano andare in quella direzione, come se solo in quel momento fossi capace di riconoscere quelli che Proust definisce i segni. Erano sempre stati lì ma io non li avevo mai notati, o meglio non ero ancora capace di decifrarli. Avevo forse ancora bisogno di incorporare il tempo perduto di mio padre per poterne afferrare l’essenza. E così saltavo da una canzone di Rino ad una pagina di Georges Perec per poi accorgermi che le loro scritture e il loro stile erano incredibilmente intrecciati. Anche Rino, a suo modo, avrebbe potuto prendere parte all’esperienza francese dell’OuliPo – quella officina di letteratura potenziale che tanto sembra avere in comune con la sua creatività. Anche lui metteva alla prova un linguaggio attraverso un’instancabile ricerca e sperimentazione.

Con Perec condivideva la passione per gli elenchi, in cui è contenuta la massima espressione di quella volontà di esaurire il linguaggio. Ne è un esempio Tentativo di esaurimento di un luogo parigino (1975) in cui lo scrittore, seduto al Café De La Mairie di Place Saint-Sulpice, ferma un’immagine dopo l’altra. L’anno della pubblicazione di questo testo coincide anche con l’uscita del singolo Ma il cielo è sempre più blu, un altro esempio di elenco infinito. Impressiona pensare che nello stesso momento Rino Gaetano nelle strade di Monte Sacro e Georges Perec in quelle di Parigi fossero entrambi impegnati in questo gioco con la lingua. Il loro è un occhio fotografico. Dopo aver catturato delle immagini, si soffermano su un particolare, quello che Barthes definisce nella fotografia il punctum, ovvero un elemento che punge: «Un dettaglio viene a sconvolgere tutta la mia lettura; è un mutamento vivo del mio interesse, una folgorazione». La letteratura di Perec e la composizione di Rino Gaetano sembrano essere attraversate da questi sconvolgimenti.

Ad unirli non è solo la passione per i giochi linguistici ma anche il tema dello spazio e dell’abitare. Nel capitolo intitolato “L’appartamento” in Specie di spazi, Perec dedica ben due paragrafi all’azione del traslocare, enumerando tutte le azioni che comporta: «pulire verificare provare cambiare sistemare firmare aspettare immaginare inventare investire decidere flettere piegare curvare» (Perec 2018, p. 45). Sembra di ascoltare la canzone di Rino Fabbricando case (1978) o anche un altro suo brano La Zappa…il Tridente il Rastrello la Forca l’Aratro il Falcetto il Crivello La Vanga (1976), il cui titolo è già un elenco.

Se nel 1969 Perec nel romanzo La scomparsa si diverte a usare il lipogramma, omettendo in tutte le pagine la lettera “e”, Rino nel suo primo singolo, che pubblica solo quattro anni più tardi, nel 1973, con lo pseudonimo di Kammamuri’s, gioca molto con l’assonanza.

I love you Marianna I love you Marianna
Marianna you love me
Sur le rives de la Seine sur le rives de la Seine
Mon amour dans le bateau-mouche
Tu esperas la ciguena, tu esperas la ciguena
Ma porque relatas eso a mi

In questo brano vengono usate ben quattro lingue diverse perché quella di Rino era una creatività fertile, sempre pronta a contaminarsi e a lasciarsi contagiare da ogni elemento esotico. Qui sceglie di inserire uno strumento musicale di origine brasiliana del tutto particolare: il reco-reco, il cui nome corrisponde al suono che emette. Ecco un altro suo tratto distintivo: le onomatopee. Ne è una dimostrazione questa strofa della canzone Ahi Maria (1979):

Il caimano distratto imitava il gatto e faceva bau-bau
Perché studiava le lingue e voleva alle cinque il suo tè
Mi disse un vecchio fachiro tu non sei un emiro in gilet
Mi consigliò senza imbroglio di non bere petrolio alle tre

Sarà per questo che gli animali sono così presenti nelle sue canzoni. Lo affascina il loro modo di comunicare solo attraverso i suoni. A volte sembra quasi che Rino desideri fare lo stesso, essere come loro: spingere il linguaggio sempre più oltre, separare il significato dal significante, isolare il suono della parola dal suo contenuto concettuale. Degli animali ama anche il modo di stare al mondo così diverso dal nostro, la loro purezza. Anche Rino era un puro e per questo non poteva non amarli.

Mio fratello è figlio unico, suo secondo album (1976), è la massima espressione di questo suo sentire. Il cane, come lui stesso racconta in un’intervista in cui si presenta con un cocker bianco e nero, rappresenta la solitudine per eccellenza. È questo un altro degli elementi dell’animalità che affascina Rino: il suo essere al margine. È da qui che osserva il mondo, cogliendone le contraddizioni, i paradossi, le assurdità, ma sempre con un tono ironico. L’ironia sferzante è usata nel suo senso più autentico, colta nel suo significato etimologico, come lo strumento di cui si serviva Socrate: la dissimulazione. Anche Rino si diverte a nascondere ciò che sa, a fingere di usare casualmente le parole, finendo così per far credere al suo interlocutore nella sua ignoranza. È in questo che consiste la sua genialità: nel non rivelarla. Quando Gianni Boncompagni durante il programma Discoring gli disse che il testo di Gianna non voleva dire niente, Rino si difese con pudore. Così anche quando, dopo aver citato la distruzione del testo di Majakovksij, venne invitato a non fare certe citazioni. Quel pudore, che viene fuori in tante altre occasioni, esprime tutta la grandezza di un essere sensibile.

Nell’ultimo anno ho avuto la fortuna di scoprire, attraverso i racconti di mio padre, il carattere allegro, giocoso e intelligentemente provocatorio di Rino. Ho provato a esplorare le intercapedini del suo estro, delle sue canzoni, a osservarne i movimenti e le espressioni attraverso i filmati, a studiare i riferimenti politici e culturali che compaiono nei suoi testi. Mi sono divertita a legare la sua musica ad altri autori, scoprendo quanto il lavoro di comparazione abbia il potere di illuminare e arricchire il nostro sguardo. Il risultato di questa ricerca è contenuto in un libro: Raccontami di Rino, pubblicato da Momo edizioni a maggio scorso, in occasione dei quarant’anni dalla scomparsa di questo magnifico artista. È uno scambio fitto e intenso tra un padre e una figlia, che attraverso la parola tentano di ricostruire ciò che Rino è stato e ciò che rappresenta per le nuove generazioni. Se è vero però che, come afferma Foucault, la scrittura e le cose non si somigliano e tra esse Don Chisciotte vaga all’avventura, allora il nostro è stato senz’altro un bellissimo viaggio.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La camera chiara, Einaudi, Torino 2016.
W. Benjamin, Napoli porosa, Edizioni Libreria Dante&Descartes, Napoli 2020.
G. Perec, Specie di spazi, Bollati boringhieri, Torino 2018.

Rino Gaetano, Crotone 1950 – Roma 1981.

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