Nel giugno 2006 “Time” pubblica un articolo dedicato a Meryl Streep in cui si afferma che non è una star come le altre, è un’attrice di fama la cui popolarità si basa su credenziali più artistiche che commerciali: appartiene all’«actorly stardom», anzi, si pone al suo acme in quanto «prestige star» (Luscombe 2006). Di che tipo di categoria stiamo ragionando? Di un preciso insieme di star hollywoodiane il cui credito artistico è ottenuto accumulando un capitale simbolico rappresentato da premi e altre forme di riconoscimento professionale. Quel che Hollywood commercia, nel caso di Streep — come di Nicholson —, è l’artisticità in sé. Questa categoria è peraltro l’unica che si oppone al modo in cui funziona a Hollywood lo star system A list, la vetta della professionalità attoriale basata sull’accumulo di capitale economico attraverso il botteghino o altri flussi di reddito. Ma, chiosa Paul McDonald, si tratta pur sempre di commerciare: nel caso di una «prestige star», un capitale simbolico anziché un capitale economico (McDonald 2020).

Il ragionamento potrebbe opportunamente traslarsi al panorama italiano. Quello che può apparire provincialismo, da questa prospettiva, rivelerebbe invece un sistema quasi integralmente basato su una “fascia A” divistica italiana improntata al prestigio, ribaltando le proporzioni hollywoodiane del fenomeno che vedono l’analoga parte del vertice quantitativamente minoritaria. L’attore o l’attrice italiano di fama, nell’Italia del 2020, esibisce tale prestigio declinando in modo peculiare il suo capitale simbolico. Assume, come è ormai acquisito in sede scientifica, un atteggiamento antidivistico (Carluccio, Minuz 2015).

Quando Luca Barra sottolinea in questa sede come Kim Rossi Stuart, o il più antidivo degli italiani, Elio Germano, esordiscano nella serialità televisiva per poi “occultare” il peccato di gioventù (che però i fan non dimenticano), disegna già parte dello scenario: l’attore di prestigio italiano nasce dal cinema d’autore di cui è portabandiera a livello transnazionale e il cui status élitario viene certificato dal circuito dei festival europei. A livello nazionale è pluripremiato. Rare, ma presenti, anche le carriere internazionali, fra cui spicca quella di Valeria Golino che negli anni novanta lavora tra Italia e Francia, dopo aver tentato la strada hollywoodiana. Se attori e attrici di prestigio italiani offrono al cinema nazionale un capitale simbolico costruito su un ostentato antidivismo che li pone al vertice della “fascia A”, anche la serialità televisiva può servire ad accreditare il «mito rigonfio di velleità artistiche» di tale categoria professionale. Anche quando diventa protagonista di «situazioni win win» televisive (Barra 2020), lo fa infatti agendo in continuità con l’immagine cinematografica. Non pare un caso che Luca Marinelli impersoni sul piccolo schermo Fabrizio De André e Claudio Santamaria Rino Gaetano, due cantautori ribelli, due artisti italiani. Oppure che Valeria Golino annunci la sua prima serie televisiva da regista tratta da L’arte della gioia (1994) di Goliarda Sapienza, la compagna del regista con cui ha esordito, Citto Maselli. La televisione contribuisce a mantenere stabili i tratti identitari del brand cinematografico.

Il reference system esige una presenza costante sul red carpet festivaliero. Anche se il divo sbarca al Lido di Venezia esibendo il pugno chiuso (Germano) oppure impiega il capitale simbolico a favore della causa ecologista (Golino, campagna Greenpeace 2013), non può esimersi dal comparire. Altro incremento del prestigio è rappresentato dal passaggio alla regia (Stuart e Golino), ma anche dalla partecipazione artistica al progetto autoriale (Servillo-Sorrentino). Un intero immaginario è ritualizzato dai festival europei che ospitano i rari eventi pubblici che vedono coinvolti i divi del cinema italiano. Individuata la categoria e inserito l’atteggiamento antidivistico nell’ambito di una esibizione del sé “di prestigio”, sarebbe opportuno cominciare a studiare attraverso quali forme si manifesti questo atteggiamento, e da quali radici provenga la sua preponderanza nel complesso del sistema italiano. Bisognerebbe cioè indagare quali forme assume l’atteggiamento antidivistico all’interno del sistema produttivo. E, per opposizione, studiare cosa resti nel panorama italiano del divismo “classico” italiano degli anni cinquanta-settanta. Due esempi: Pierfrancesco Favino con i suoi show televisivi e Stefano Accorsi con la più significativa presenza sui social fra gli attori italiani paiono prendere le distanze da questa postura, pur appartenendo alla “A list”.

Giulia Carluccio e Andrea Minuz hanno raccolto alcune testimonianze esemplari che riguardano Giovanna Mezzogiorno, Jasmine Trinca, Margherita Buy, Micaela Ramazzotti, Isabella Ferrari, Elio Germano, Luca Argentero, Raoul Bova, Toni Servillo: se è vero che la quantità di attori per cui i media impiegano il termine “antidivo” è talmente cospicua da poter individuare nell’Italia «il paese degli antidivi», sembrano ancora latitare i contorni di tale definizione. Sicuramente ne è parte l’anti-presenzialismo, un rapporto selezionato con i media o il porsi come «testimonial del nostro paesaggio» più che dell’industria cinematografica. Ma anche il rifiuto dei social media come mezzo di comunicazione andrebbe maggiormente studiato. Oppure l’assenza di pianificazione del rapporto con i fan (per questo motivo, a mio avviso, Claudia Cardinale andrebbe esclusa dal novero, se pur chiamata in causa).

L’esibizione “di prestigio” attraverso la forma dell’antidivismo trova origine nella storia del cinema nazionale. Comincia con le dive del muto che si autopromuovono quali «artiste del cinematografo» e affonda le sue radici nel teatro dell’Ottocento che conferisce un rilevante ruolo sociale (e perfino politico) agli attori in forza del loro riconoscimento pubblico in quanto artisti. Nell’industria cinematografica italiana, storicamente a-sistematica, c’è sempre posto per figure d’eccezione dotate di un capitale simbolico che può diventare antagonista del capitale economico, ma più spesso ne è alleato di pregio. Attori e attrici di “fascia A” che passeggiano sui tappeti rossi perché è il loro mestiere, ma ne farebbero volentieri a meno (Zincone 2010, a proposito di Giovanna Mezzogiorno): se così ci appare il cinema italiano nelle sue esibizioni più popolari è perché quello antidivistico è un anzitutto un atteggiamento élitario eretto per preservare il capitale simbolico della “A list”, altrimenti detta «la casta dei cast» (Romani 2013).

“Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto così, vicino a una finestra di profilo in controluce, voi mi fate: ‘Michele vieni in là con noi dai…’ e io: ‘andate, andate, vi raggiungo dopo…’. Vengo! Ci vediamo là. No, non mi va, non vengo, no, ciao, arrivederci Nicola”. Michele Apicella al telefono in Ecce bombo (Moretti, 1978) recita l’antidivismo. Immagina di esibirsi di profilo in controluce, una silouhette alla Greta Garbo, per mantenere intatto il mistero e porsi al centro della scena pubblica. Assenza e lontananza anziché la calorosa prossimità di star italiane come Loren e Mastroianni. Per perimetrare il concetto di antidivismo italiano andrebbe messo in relazione il reference system festivaliero con la remunerabilità degli attori selezionati in film di interesse culturale (Scandola 2020) anche a partire da un preciso contesto storico di riferimento. Moretti acquisisce prestigio internazionale con gli anni novanta che hanno progressivamente segnato, nell’Europa dopo la caduta del Muro, l’avvio dell’era transnazionale di un mercato in cui la celebrità cinematografica è attestata da premi e riconoscimenti conferiti dai maggiori festival. E questo vale per i registi come per gli attori. Sarebbe opportuno porlo come termine a quo.

Certo appare arduo definire tale atteggiamento esibito dalla microsocietà degli attori italiani “A list”, e potrebbe perfino risultare un esercizio sterile. Se non fosse che “la casta dei cast” ha un ruolo sulla scena pubblica: come sappiamo dagli studi di Richard Dyer, il capitale simbolico si esprime anche in forme politiche. Niente film commerciali per Servillo. Niente social per Golino. Moretti potrebbe essere pronto per girare o interpretare serie televisive ma, al più politico degli attori italiani, «il selfie non ha il coraggio di chiederglielo nessuno» (Ravarino 2016). Non si può che concordare: «Toni Servillo, Elio Germano, Jasmine Trinca, Luca Marinelli e Valerio Mastandrea — forse la quintessenza della recitazione vissuta come impegno civile — rifiutano il divismo come sovraesposizione mediatica finalizzata al potenziamento del brand e lo fanno per una ragione tanto artistica quanto politica» (Scandola 2020).

Riferimenti bibliografici
L. Barra, Attori italiani e piccolo schermo, in “Fata Morgana Web” (2020).
G. Carluccio, A. Minuz, Nel paese degli antidivi, in “Bianco e Nero”, n. 581, gennaio-aprile 2015.
B. Luscombe, 7 Myths about Meryl, in “Time” (2006).
P. McDonald, Hollywood Stardom. Il commercio simbolico della fama nel cinema hollywoodiano, Cue Press, Roma 2020.
I. Ravarino, Moretti e il nuovo cinema: «Sono pronto a girare una serie tv», in “Il Messaggero”, 26 luglio 2016.
C. Romani, Da De Sica alla Ferilli. Ecco la casta dei cast, in “Il Giornale”, 30 dicembre 2013.
A. Scandola, (Anti)divi di oggi e di domani, in “Fata Morgana Web” (2020).
V. Zincone, Giovanna, l’italienne e i voti al cinema, in “Corriere della Sera”, 12 maggio 2010.

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