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Tazieh (Kiarostami, 2003).

Interlocutorio il titolo originale di questo libro (L’image, peut-elle tuer?, Bayard, Paris 2002), apodittico quello della sua recente traduzione italiana: L’immagine che uccide. Si tratta in ogni caso di un agile e illuminante saggio sul potere (e sulla violenza) delle immagini. L’autrice, Marie-José Mondzain, da sempre si occupa della questione attraverso una rilettura teologica: il nostro pensiero sulle immagini è condizionato dal modo in cui la dottrina cristiana ha ritagliato per esse un ruolo all’interno di una fede verso un dio invisibile. Questo indirizzo di ricerca sta conoscendo una notevole fortuna, godendo dei contributi di autorevoli filosofi, storici dell’arte e iconologi: uso queste etichette senza alcuna pretesa di esaustività. Oltre a Mondzain, vanno menzionati almeno, per restare al solo contesto italo-francese, i nomi di Giovanni Careri, Daniele Guastini e Gaetano Lettieri; sullo sfondo c’è la figura di Giorgio Agamben, il quale ha fornito a questo filone di studi non pochi strumenti concettuali, in particolare sotto il profilo del passaggio dal cristianesimo alla modernità secolarizzata.

Mondzain si contraddistingue per l’interesse verso la comprensione del rapporto tra “economia della salvezza” e dinamica nella produzione e nell’uso di immagini. Da una parte c’è un dio che è il signore di una “casa” (oikos), che corrisponde all’intero cosmo e all’insieme degli esseri viventi, tra cui gli esseri umani. Scopo di questo sistema “domestico” è la salvezza eterna; dio dà dunque alla casa una legge (nomos). Questa è appunto l’“economia” (in greco oikonomia) che governa il mondo nella sua tensione verso la redenzione. Dall’altra parte emerge come tale redenzione, a fronte della caducità della natura sensibile, che nel pensiero cristiano è stata per secoli segno di corruzione, non possa essere attinta attraverso il solo rispetto di una legge.

L’immagine perde così i connotati di semplice imitazione, ovvero di emulazione non estranea a tratti produttivi e creativi, con cui la filosofia antica da Platone e Aristotele in avanti l’ha più o meno sempre caratterizzata. Essa diventa ora uno tra gli strumenti privilegiati per avvicinare il dio che governa (e salva) il mondo: non più modo di esibire il già visibile, ma una maniera di rappresentare l’irrappresentabile. La teologia cristiana recupera peraltro uno degli sviluppi del pensiero platonico sull’immagine, che da un’iniziale condanna in quanto copia della cosa sensibile – copia a sua volta di un modello ideale – è diventata strumento, tramite l’esibizione del bello sensibile, di rinvio al bello intelligibile delle idee (questa linea di continuità tra il platonismo e il cristianesimo fu già magistralmente messa in evidenza da Erwin Panofsky).

Ciò che Mondzain mette in luce attraverso l’interpretazione di alcuni testi patristici è che nell’immagine cristiana ne va del fatto di consentire allo spettatore un movimento di incorporazione della sua sensibilità nel corpo spirituale del dio invisibile che proprio attraverso l’immagine diventa esperibile. L’immagine è gesto di incorporazione del soggetto a una realtà sovrasensibile.

Pur muovendosi sul terreno di una teologia dell’immagine dettata da dottrine e testi, Mondzain non elimina tuttavia ogni riferimento all’autonomia dell’artista. La creatività dell’artista nel recepire il dettato dottrinario per poi tradurlo in raffigurazioni concrete non è dimenticata in questa prospettiva teologica: difficile negare però che la cornice di riferimento resta extra-artistica. Per diversi secoli le cose sono andate così: l’arrivo della modernità nell’arte europea ha però coinciso con l’emergere di una figura di artista autonomo, capace di fissare da solo non solo le tecniche ma anche gli scopi e i modi in cui sensibile e intelligibile, visibile e invisibile devono incontrarsi. Per Mondzain l’artista moderno – impossibile non riconoscere in questa figura Caravaggio – non è colui che recide ogni legame o mantiene un legame solo apparente con il contenuto extra-artistico dell’opera, ma chi sa riorganizzare in maniera originale la pregnanza semantica di tale contenuto, la sua capacità di riferimento al mondo. In questo senso si può dire che l’arte moderna assegna un nuovo significato all’esperienza estetica, non concependo più il momento sensibile dell’incontro con l’immagine come un’introduzione, necessaria ma inferiore, a un contenuto superiore (mistico o intellettuale), bensì come il luogo di negoziazione dei necessari processi di “sensibilizzazione” di concetti e idee nelle immagini. È una linea che troverà agli albori dell’estetica due sviluppi maggiori e alternativi in Kant e Hegel. Si può anzi dire che anche grazie a questo passaggio può nascere l’estetica.

Valorizzando la tesi sul moderno, vorrei far emergere un elemento di criticità, ravvisabile a mio parere nel libro. Finora ci siamo concentrati sul potere delle immagini, che risiede essenzialmente nella loro forza di incorporare lo spettatore in un modello; niente si è detto a proposito della violenza evocata nel titolo del saggio. La violenza delle immagini è l’altra faccia del potere di incorporazione. Questa istituisce un vincolo comunitario: di fronte alle immagini sacre non siamo solo spettatori ma letteralmente membra di un corpo comune. Essa comporta però anche l’esclusione di chi non si conforma a quella immagine, di chi resta difforme e per ciò stesso può essere eliminato (anche fisicamente) dal campo del visibile.

Attraverso questa tesi “fulminante” Mondzain può rendere ragione del connubio tra terrorismo e religione, inaugurato con gli attentati del 11 settembre. Ma allora, forse, più che i prosecutori diretti delle dispute antiche e medievali sull’uso delle immagini, i terroristi sono un tipo (perverso) di artista moderno, che fa uso in modo consapevole della forza estetica delle immagini, del loro potere di conformazione (ed espulsione), come arma ideologica e politica. Essi non creano nell’immagine una nuova idea, cioè un nuovo modo di articolare il riferimento dei significati al mondo, fossero anche significati tratti da una tradizione pregressa: essi manipolano piuttosto i sensi, le passioni e gli affetti allo scopo di veicolare idee e messaggi prefabbricati. A controprova della differenza che può essere rintraccia tra violenza e potere delle immagini, si veda l’analisi che Mondzain fa dello spettacolo teatrale Tazieh di Abbas Kiarostami. Tazieh riprende un tipo di rappresentazione religiosa popolare iraniana, in cui non manca la simulazione di elementi cruenti. Lo scopo dello spettacolo non è però quello di eccitare la sensibilità del pubblico, ma di risvegliarne la compassione e il dolore – tazieh si può tradurre con “cordoglio” – verso i santi-eroi di cui sono narrate le tragiche vicende. Proposta in chiave intermediale – alcuni schermi, nella messa in scena di Kiarostami, mostrano i volti di iraniani che piangono vedendo la rappresentazione – non ingenera un movimento di esclusione ma piuttosto di inclusione dello spettatore estraneo (come ha evidenziato Peter Brook).

D’altronde come potremmo entrare in comunicazione con fatti lontani da noi se l’arte non fosse capace di elaborare (in senso freudiano) esperienze traumatiche? Il compito che ci lascia questo libro, dopo aver decostruito la violenza insita nelle immagini, è allora quello di interrogarci sull’autentico potere che esse esercitano tuttora.

Riferimenti bibliografici
M.-J. Mondzain, L’ immagine che uccide. La violenza come spettacolo dalle Torri gemelle all’Isis, EDB, Bologna 2017.
A. Campo, D. Cecchi, D. Guastini, a cura di, Alla fine delle cose. Contributi a una storia critica delle immagini, La Casa Usher, Lucca 2011.
D. Guastini, a cura di, Genealogia dell’immagine cristiana. Studi sul cristianesimo antico e le sue raffigurazioni, La Casa Usher, Lucca 2014.

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