Ho pensato a come fosse, se davvero fosse vero
che il pensiero mi bastasse
a ottenere ciò che chiedo.
Ho avuto la visione di un mondo televisore, luce artefatta e dipinto c’era il cielo.
E io convito di quello che vedo c’ero
quando il materialismo
ha preso il posto di ogni credo.
Abbatteremo questi muri quando grideremo
viva la rivoluzione, quella di pensiero
Chiky Realeza, Essere Se Stesso
La periferia, intesa sia come spazio urbano periferico rispetto al centro cittadino sia spazio fisico della marginalità sociale e affettiva, dell’umanità dolente, è certamente tornata ad essere epicentro del cinema italiano contemporaneo, documentario e di finzione. Si pensi, ad esempio, ai film che negli ultimissimi anni hanno posto al centro del discorso il paesaggio suburbano romano, inteso nella dimensione plurale di periferie, le loro plurime e specifiche identità, oppure luogo irriconoscibile, astratto, metafora di uno spazio universale di degrado e conflitto, Lo chiamavano Jeeg Robot (Mainetti, 2015), Il più grande sogno (Vannucci, 2016), Il contagio (Botrugno, Coluccini, 2017), Fortunata (Castellitto, 2017), Manuel (Albertini, 2017), Cuori puri (De Paolis, 2017), Dogman (Garrone, 2018) o La terra dell’abbastanza (2018) e Favolacce (2020) di Fabio e Damiano D’Innocenzo, dando vita quasi a un sottogenere.
Gettando luce su una realtà ai margini, anche il cinema documentario si è concentrato sulla dimensione quotidiana degli spazi di periferia, intesa anche come luogo di relegazione ed esclusione, emarginazione, dato da frontiere e barriere invisibili interne alla città. L’espansione dell’area urbana di Roma, a partire dai primi anni sessanta, ha di fatto relegato anche Ostia nell’immaginario periferico. Rappresentata prima come meta delle domeniche estive della piccola e media borghesia capitolina, il litorale romano diventa, nel cinema contemporaneo, dopo anni di speculazione edilizia, una zona degradata. La marginalità urbanistica si rispecchia in quella esistenziale, rappresentata dal cinema di Claudio Caligari alla serie Suburra (2017-), per citare alcuni esempi noti.
Punta sacra di Francesca Mazzoleni, vincitore del Sesterce d’Or al festival Visions du Réel, racconta la realtà e la comunità dell’Idroscalo di Ostia procedendo verso una ri-semantizzazione dello spazio periferico, restituendone un nuovo valore testimoniale. Fin dal titolo, il film cerca di restaurare una dimensione sacrale, mitologica, che gli abitanti attribuiscono a questo lembo di terra dove il Tevere incontra il mare. L’idroscalo è un luogo crepuscolare, destinato a sparire sotto le politiche di riqualificazione, che nascondono invece spesso intenti di natura puramente economica. Dopo gli sgomberi avvenuti una decina di anni fa, all’idroscalo troviamo ancora una comunità estremamente determinata e vitale che cerca, con i (pochi) mezzi a disposizione, di combattere la propria sfida quotidianamente.
Il film rifiuta fin da subito il tono dell’inchiesta e di perseverare in una topica della denuncia, attaccando istituzioni e i poteri, nella ricerca di un persecutore su cui anche lo spettatore possa riversare le proprie accuse e indignazioni così come la ricerca di una narrazione patemica nell’esporre e restituire il dolore, le difficoltà e i soprusi inflitti alla comunità, con il fine ultimo di rendere l’evento sensazionalistico. La rabbia si trasforma in determinazione nel momento in cui il film si concentra sulla rivendicazione, da parte della comunità, delle proprie radici, la propria appartenenza al luogo.
Punta sacra propone una ricostruzione e ri-sematizzazione di uno spazio estremamente fragile, non la geografia urbana della periferia ma la geografia personale del luogo. La divisione in capitoli (Mare, Terra, Madre, Padre, Figli, Fede, Festa) tende a delineare e tracciare alcuni macro-temi che vanno a costruire un insieme legandosi tra loro nel corso della narrazione. Similarmente, le immagini riprese dall’alto dal drone, in apertura di ogni sezione, che restituiscono una visione parziale e frammentaria dell’idroscalo, vanno a riformare e ricostruire uno spazio ibrido, multiforme, attraverso una polifonia di voci.
Il film riflette il bisogno di cercare nuove strade sia sul piano linguistico che su quello dei contenuti, andando oltre le singole strutture e i canoni di natura ontologica che spesso confinano nell’ideale utopistico del cinema documentario come restituzione del reale. Punta sacra attua una ricomposizione e re-interpretazione della realtà filmata. Un cinema per il reale, al servizio del reale, come propone Daniele Dottorini riflettendo sulla nuova ondata di cinema documentario italiano definita appunto cinema del reale, da critici e studiosi e sui cui si è concentrata negli ultimi anni l’attenzione.
Come nota Dario Zonta cercando di mappare un cinema che, per natura, raccoglie differenti linee espressive, scelte estetiche e stilistiche, ma che si accomuna per una ridefinizione di forme e di prospettive di indagine sul reale, sul visibile e sui principi di rappresentazione, «ci riferiamo a quei film che hanno il reale come metodo, fonte, ispirazione, baricentro, cornice, sviluppo e la drammaturgia come linguaggio, narrazione, racconto, storia e ancora sviluppo. Nella loro macchina cinema, il reale – come fosse una materia – viene alterato, piegato, modellato e trasformato in nuove forme di narrazione» (Zonta 2017, p. 2).
Punta sacra, alla ricerca di uno sguardo alternativo, costruisce un nuovo immaginario, rigettando un’immagine o una forma unitaria, per abbracciarne una ibrida e molteplice. Nella costruzione di un racconto e nella restituzione di una precisa realtà del luogo, il film alterna uno sguardo osservativo, lasciando che le persone della comunità raccontino e si raccontino davanti alla macchina da presa, a chiari interventi di natura finzionale, dalle immagini dei droni, alla musica extradiegetica. Il film instaura un’altra relazione con lo spazio, con il reale, un potenziamento, un’intensificazione.
La re-interpretazione del reale enfatizza l’aspetto crepuscolare e malinconico del luogo, così come la scelta di girare il film nel corso dell’inverno, quando la natura sprigiona tutta la sua rabbia e potenza, dal mare al vento, agli interminabili tramonti. Tra costruzione di caratteri identitari e smantellamento, lo spazio periferico, un paesaggio in bilico, in rovina, paesaggio fisico, sociale e psicologico, riacquista un nuovo valore testimoniale, non epicentro della cronaca ma universo in continua espansione, non oggetto di consumo o di frattura ma luogo abitativo, luogo di resistenza e appartenenza.
Riferimenti bibliografici
S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Marsilio, Padova 2002.
D. Dottorini, a cura di, Per un cinema del reale. Forme e pratiche del documentario italiano contemporaneo, Forum Edizioni, Udine 2013.
D. Zonta, L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Roma 2017.
Punta Sacra. Regia: Francesca Mazzoleni; sceneggiatura: Francesca Mazzoleni; fotografia: Emanuele Pasquet; montaggio: Elisabetta Abrami; musiche: Lorenzo Tomio; interpreti: Franca Vannini, Silvia Fontana, Giulia Fontana, Stefania Fontana, Francesca Bianchi; produzione: Morel Film; distribuzione: True Colours; origine: Italia; durata: 96′.