«Il teatro come macchina acquista senso, per me, solo nel caso si intenda per macchina il palcoscenico stesso e l’attore in palcoscenico come l’attore impigliato in una macchina». Basterebbe questa frase, contenuta negli appunti sparsi di Prove di autobiografia — volume a cura di Giovanni Agosti ritrovato postumo nell’archivio personale del Centro Teatrale Santacristina e pubblicato per la prima volta quest’anno da Feltrinelli — per capire il senso di tutta l’esperienza teatrale di Luca Ronconi. Il palcoscenico come luogo in cui si consuma una prassi impersonale, spazio aperto dove corpi e macchine si muovono seguendo le geometrie di un moto simultaneo e indistinto. O ancora il palcoscenico come campo “de-teatralizzato”, in cui prende forma la rappresentazione ibrida di umano e inanimato, di bios e tèchne.

È la cifra decisiva di tutta l’attività registica di Ronconi, ripercorsa in queste pagine autobiografiche tra il personale e il professionale, il privato e il pubblico, che ricostruiscono aneddoti, spettacoli, incontri e affetti di una vita vissuta a servizio del teatro. L’infanzia tra Roma e la Svizzera, la formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, le prime prove come attore, i grandi spettacoli da regista, la creazione del Laboratorio di Prato e del Centro Teatrale Santacristina, la direzione dei teatri stabili di Roma, Torino e Milano.

Un’esperienza umana e teatrale impossibile da riconsegnare in poche righe, che si compendia in una lunghissima sequenza di spettacoli leggendari che sembrano tracciare una vera e propria topografia dello spazio teatrale italiano ed europeo della seconda metà dello scorso secolo. Le sale della Chiesa di San Niccolò a Spoleto che ospitano le grandi scene parallele dell’Orlando furioso (1969), il lago di Zurigo per Das Kätchen von Heilbronn (1972), passando per le Fonderie teatrali di Moncalieri per Fahrenheit 451 (2007) o al riutilizzo di Corso Ercole I d’Este di Ferrara per Amor nello specchio (2002), arrivando al ripensamento radicale dello spazio tradizionale (il Teatro Nacional Dona Maria II di Lisbona o il Teatro Argentina di Roma) in Questa sera si recita a soggetto (1998) e molti altri spettacoli.

Scorrere le pagine di Prove di autobiografia non significa dunque unicamente attraversare una delle esperienze fondative del nostro Novecento teatrale. Significa piuttosto percorrere di riflesso l’intera tradizione del teatro di regia in Italia, i suoi ritardi e anacronismi, i suoi scarti rispetto all’immenso orizzonte delle pratiche (primo)novecentesche, che avevano sancito l’atto originario della regia, e che in Italia avevano attecchito con lentezza rispetto ad altri Paesi europei. Una linea genealogica che nel nostro Paese inizia con il lavoro di Visconti — vera e propria epifania teatrale per Ronconi subito dopo gli anni di apprendistato come attore all’Accademia — e il suo tentativo di «fare teatro in un modo meno legato alla centralità dell’attore», passa per la richiesta dello stesso Ronconi agli interpreti «di entrare a fare parte di un disegno più che di un’attitudine esclusivamente attoriale» e arriva fino all’esperienza contemporanea di Romeo Castellucci. Una linea che si contrappone al teatro di regia imperniato invece sulla figura dell’attore, sulla inevitabile centralità del suo corpo, che in Italia proviene dalla tradizione dei Comici dell’Arte, e che nasce con Silvio D’Amico trovando la sua massima espressione nelle regie di Giorgio Strehler e poi in quelle di Mario Martone.

Da un lato dunque il palcoscenico come «luogo di passaggio», come forza centrifuga attraverso cui rimodulare incessantemente il dialogo ibrido tra il tecnico e l’umano, talvolta in modo aporetico (si pensi agli ultimi estremi esperimenti di Castellucci ne Le Sacre du printemps e al loro superamento radicale del corpo attoriale, impensabili senza l’eredità del Ronconi degli anni 1960-70); dall’altro invece uno spazio centripeto e simmetrico, che focalizza prospetticamente il suo punto di visione sulla presenza dell’attore, sul carattere imprescindibile della sua centralità scenica (le messinscene goldoniane di Strehler o spettacoli recenti come Morte di Danton di Martone).

Se questa “prima” tendenza è stata spesso considerata espressione di un manierismo barocco, di un “cedimento” del teatro alla forza spettacolare dei nuovi linguaggi tecnici (il cinema in primis), per Ronconi che si racconta nella sua autobiografia ha invece rappresentato il problematico tentativo di costruire una linea “autenticamente italiana” della regia, attraverso il recupero della grande tradizione della festa rinascimentale, e dell’utilizzo espressivo della macchina teatrale come grande dispositivo tecnico di fondazione dello spettacolo (da Leonardo da Vinci in poi). In altre parole, un dispositivo il cui fine è stato quello di proporre una costruzione tecnica del teatro che costituisse una via italiana dentro l’immenso spettro del repertorio registico europeo e occidentale.

Per quanto problematica sia stata (e continui ancora ad essere oggi, basti pensare agli spettacoli dell’ultimo Castellucci come Democracy in America), questa via ha rappresentato uno dei più significativi contributi italiani alle forme del teatro di regia nel Novecento, altrimenti collocati su posizioni di retroguardia o attraversati da questioni unicamente drammaturgiche (da Pirandello a Pasolini) e di antropologia attoriale (in modo differente da Eugenio Barba a Carmelo Bene, fino a Dario Fo e Eduardo). Interpretando la regia come grande dispositivo di messa in forma dell’impersonale, memore della tradizione rinascimentale, Ronconi ha pensato la scena come luogo in cui si consuma l’incontro tecnico tra l’umano e l’inumano, in cui la vita prende forma a partire dal carattere generico della realtà, approntando una cifra registica riconoscibilissima che ha indubbiamente avuto una rilevanza enorme nella nostra tradizione.

Ciò che forse Ronconi non ha riconosciuto, per ragioni evidentemente storiche, è quanto il limite di una concezione della scena pensata a partire dall’“abbassamento” dell’umano a livello della tecnica possa aver infine corrisposto ad una scena dominata dall’anarchia delle immagini tecniche, riproducibili e pronte ad essere riprodotte. Il limite cioè di una scena pensata esclusivamente come un’image-mouvement, un puro passaggio meccanico indipendente dall’azione regolatrice della prassi umana. E non è infatti un caso che da L’Orlando furioso a La torre, Gli ultimi giorni di Pompei, Bettina e molti altri, Ronconi abbia spesso voluto “filmare” i suoi spettacoli e riproporli in televisione. Filmare — scrive in Prove di autobiografia — come tentativo ultimo di «cancellare il palcoscenico», di sostituirlo con la «dilatazione di una pagina, senza profondità, senza spessore». Un’estroflessione radicale del teatro fuori di sé. L’annullamento di ogni presenza (umana) per recuperare quello scarto radicale tra vita e rappresentazione, mondo e scena — anche a costo di violentarne la natura —, che per Ronconi è stato il solo a permettere al suo teatro di parlare della vita stessa.

Riferimenti bibliografici
L. Ronconi, Prove di autobiografia, Feltrinelli, Milano 2019.

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