Nella cosmogonia biblica il soffio divino — o vento o alito, ma le sue diverse accezioni e traduzioni non costituiscono l’oggetto di questa riflessione — ha una valenza creatrice, materica, animatrice (nel senso di “donare vita”) del cosmo e dell’essere umano. Sebbene non si tratti di un libro di argomento religioso, anzi, è però quasi impossibile non cogliere questo richiamo evocativo e simbolico con il vento che soffia nell’incipit di Profumo di fascismo e sali del Mar Morto (All Around, 2021), l’ultimo scritto di Vittorio Pavoncello che, come lo stesso autore comunica, «non è un romanzo, sono parole costrette a farsi narrazione per esistere». Un libro ricco e polimorfo, dallo spessore filosofico ma indissolubilmente legato anche alla memorialistica autobiografica e alla riflessione politico-sociale. La dimensione teatrale è pure molto presente, un monologo di forte impatto — l’autore è noto per le numerose regie teatrali e cinematografiche.

Questo vento soffia dal principio alla fine del testo e non si tratta (soltanto) di un buon espediente narrativo, perché accoglie in sé una valenza ben più profonda. Questo vento anima la presenza di un avo, il nonno paterno, o, meglio ancora, il vento ricrea la sua presenza per rendere possibile un dialogo con lui, nonno mai conosciuto perché deportato del campo di concentramento italiano di Fossoli, per poi morire ad Auschwitz. Nell’introduzione di Enrico Terrinoni, Di messaggi, memoria e morte ovvero, mensonge ou mes songes? si legge che «ricordare significa rivivere e far rivivere» e che il «cuore di questo non-romanzo è un tentativo al contempo di ricordare e di connettere. Connettere il futuro al passato. In una parola: messianismo». Il libro di Pavoncello è infatti un libro messianico (definizione, questa, sempre di Enrico Terrinoni): la scrittura, in questo caso, è l’occasione non solo per ricordare e fare memoria di una storia familiare indissolubilmente legata alla Shoah, ma anche e — forse soprattutto — per riflettere sul presente e sul futuro. Fare memoria per fare futuro.

Questo scritto, difficilmente definibile — ma questo è uno dei suoi innegabili pregi — ha un fine duplice, il primo esplicitato dall’autore: «Chi dovesse leggere questo testo, per il luogo in cui si è svolto e per i temi trattati potrebbe, presto o tardi, fare di me e ciò che si racconta, una élite da combattere, e anche se non immediatamente, da eliminare. Scopo di questo romanzo, oltre al piacere della lettura, è far cambiare idea non solo a chi leggerà ma anche ai molti che hanno contribuito, pur senza apparire nella storia, a realizzarlo». Negazionismi turpi e di ogni genere incombono su questa nostra società ed è compito imprescindibile fare chiarezza e dare alla storia ciò che le appartiene.

Ma questo libro ha anche un’altra finalità, ovvero rispondere alla domanda “chi sono?” e farlo da una doppia prospettiva. Qual è la relazione identitaria di un ebreo (o israelita, come ci tiene a precisare l’autore, ma non israeliano) nei confronti dell’orrore che è stato e soprattutto dell’assenza che ha lasciato — un’assenza vissuta concretamente da un nipote rispetto a un nonno mai incontrato perché sottrattogli dalla storia? Definire un’identità come forma unica e definitiva è di per sé una fatica di Sisifo perché, come esprime l’autore, “non esiste una monolitica identità», eppure questa domanda, «chi sono?», è irrinunciabile: per quanto fluida e precaria possa essere, è una domanda che esige risposta. Ma Pavoncello fa un passo in più. La risposta a questa domanda va cercata in una direzione duplice, rivolta all’interno e contemporaneamente all’esterno di sé, nei confronti del passato e della memoria familiare ma anche nel presente e nel potenziale futuro.

A partire da due fatti di cronaca attuali riguardanti Israele, dai quali in parte deriva il titolo del libro, tenta di interrogarsi su come quel “chi sono” si sia dispiegato a livello comunitario e quali sfumature stia assumendo nel presente: all’interrogazione identitaria, in questo caso, non è possibile rispondere se non tentando di intrecciare la storia individuale con quella comune, condivisa, non separando ma intersecando le dimensioni spazio-temporali. Ed è questo il cuore notevole di quest’opera: riflettere sull’identità ebraica (o israelita) in relazione alla Shoah non è cosa che riguardi solo la memoria in quanto passato, ma anche — se non soprattutto — la dimensione del presente e del futuro. Dell’ebraismo ma non solo.

Così il vento soffia lungo tutto questo testo, a livello narrativo e simbolico, un vento che scandisce anche le dimensioni temporali del libro e che ci conduce attraverso il passato fino agli interrogativi più scomodi quanto necessari, in un confronto serrato con la storia e con tutti i più attuali e orrendi negazionismi, quello che riguarda la Shoah ma anche il cambiamento climatico o la presenza della pandemia in corso. Il protagonista di questo libro onirico, dotato di uno sperimentalismo della scrittura che non è affatto divertissement della lingua quanto ricerca di contatto con la fluidità delle emozioni, dice di sé: «Alcuni si sono sempre fatti forza aggrappandosi al proprio Dio, io mi aggrappavo al mio ateismo che riusciva appena a non farmi cadere. Mi sentii improvvisamente solo, abbandonato da tutto e tutti, quando all’improvviso la voce del vento tornò a farsi udire e mio nonno a parlarmi. Alzati e percorri la via della memoria». Se anche non fosse un comandamento divino, questo vento sia di monito per il cuore degli uomini.

Riferimenti bibliografici
V. Pavoncello, Profumo di fascismo e sali del Mar Morto, All Around, Roma 2021.

Vittorio Pavoncello, Profumo di fascismo e sali del Mar MortoAll Around, Roma 2021.

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