Nel novero delle schematizzazioni imposte alla storia del pensiero, una fra tutte, quasi si trattasse di un mantra a cui l’opinione comune ci ha assuefatti, vede nel sistema hegeliano l’ultimo grandioso edificio della metafisica occidentale, uno spartiacque decisivo che verrebbe a segnare al contempo il culmine e il crollo dell’istanza metafisica tradizionalmente intesa. A questa ricostruzione fa seguito, come suo corollario naturale, l’idea che non possa darsi più alcuna impresa speculativa in tal senso, e che la contemporaneità sia irreversibilmente segnata, al contrario, da un profondo spirito antimetafisico. Date queste premesse non sorprende che Processo e realtà, opera capitale di Alfred North Whitehead e dalle grandi ambizioni speculative, sia oggi – almeno in Italia – piuttosto dimenticata, né d’altronde stupisce che essa sia stata accolta con perplessità e reticenze sin dalla sua prima apparizione nel 1929.

Come infatti indica il sottotitolo dell’opera, Saggio di cosmologia – da intendere in senso greco, come una teoria del tutto e non limitata all’universo fisico – quello che Whitehead ha in mente è esattamente il «tentativo di formulare un sistema coerente, logico e necessario di idee generali nei termini in cui ogni elemento della nostra esperienza possa essere interpretato». Questo intento supera di gran lunga per ambizione filosofica le precedenti ricerche dell’autore, che dopo una fase iniziale di interesse prettamente logico-matematico (in cui avevano visto la luce i Principia Mathematica, scritti insieme all’allievo e amico Bertrand Russell) si era dedicato ampiamente alla riflessione epistemologica, per approdare infine alla filosofia stricto sensu attraverso una riconsiderazione speculativa dei risultati raggiunti. Il nuovo orizzonte squisitamente metafisico che viene così dischiudendosi, lungi dall’essere in contrasto con la precedente ricerca scientifica dell’autore (o esserne, come denunciarono i neopositivisti, un’inaccettabile degenerazione) ne costituisce semmai un’estensione e una radicalizzazione.

Come l’endiadi del titolo sta ad indicare, la chiave di volta dell’intera opera è costituita dalla considerazione processuale della realtà; il processo diviene cioè quel primum ontologico in base al quale è possibile reinterpretare in modo sistematico e unitario tanto il mondo fisico quanto l’esperienza percettiva, fino alla teologia, a cui è dedicato l’ultimo capitolo dell’opera. Occorre in primo luogo notare che una rilettura processuale della realtà deriva innanzitutto dalla immediata (nonché ordinaria) evidenza esperienziale: che la realtà, cioè, sia incessantemente soggetta a divenire, o meglio, che si presenti proprio in questa forma, quella di «un continuum frammentario e con elementi non chiaramente differenziati».

Con il fermo proposito di sfuggire all’errore della “concretezza mal posta” – proprio a suo giudizio di molta fisica e filosofia – e rivelando il suo debito con la tradizione empirista, Whitehead vede proprio nel processo la chiave per ricondurre a unità quelle “biforcazioni della natura” e in generale tutti quei dualismi che deriverebbero in ultima istanza dall’aver assunto come dato esperienziale immediato ciò che è invece una costruzione logica astratta; prima fra tutte la fallacia materialistica, che considera la realtà in termini di oggetti distinti collocati nelle coordinate assolute dello spazio e del tempo.

Prediligendo così alla categoria aristotelica della sostanza quella della relazione, Whitehead individua in quelle che chiama occasioni o entità attuali gli elementi primi e irriducibili della sua ontologia processuale; attualità che sta ad indicarne in primo luogo l’attività, la loro natura dinamica ed evenemenziale. Le entità attuali sono infatti non res ma eventi, entità che emergono come centri nodali dalla trama delle relazioni in cui sono immerse, senza tuttavia dissolversi in essa. Ogni evento conserva infatti la propria specifica individualità, come espresso dalla nozione di creatività – vale a dire “il principio della novità” – che riguarda la realtà in ogni sua manifestazione; ogni entità-evento è cioè una singolarità irripetibile e istantanea che deriva dalla rete di relazioni che lo ha prodotto e che immediatamente “perisce” contribuendo alla generazione di nuovi eventi.

Nella “filosofia dell’organismo” di Whitehead ogni entità attuale è infatti compresa (nonché comprensibile) nella totalità delle relazioni da cui scaturisce e da cui non può essere isolata; perciò l’“avanzamento creativo”, ovvero l’attuarsi e il prodursi della realtà stessa, è un processo di concrescenza, ossia letteralmente un crescere-insieme di parti interdipendenti in un tutto, un universus, solidale e organico.

Un ulteriore e fondamentale aspetto della cosmologia whiteheadiana sta nell’attività percettiva (la “prensione”) caratteristica di ogni entità attuale; mostrando più di un’analogia con la monade leibniziana, intesa come un “punto di vista sull’universo”, ogni entità attuale appare quindi come una “goccia di esperienza” cosmica, connessa a tutte le altre mediante la sua attività di prensione. In questa prospettiva è interessante notare il modo in cui viene riconfigurata la nozione di esperienza che, contro ogni soggettivismo (tanto idealistico quanto empiristico) acquisisce in Whitehead un valore ontologico molto più ampio, infierendo così un durissimo colpo a quello che potrebbe essere considerato il dualismo moderno per eccellenza, ossia la distinzione tra soggetto e oggetto. Che ogni entità attuale sia “fatta” di esperienza significa infatti che ciascuna di esse si presenta al tempo stesso come il soggetto dell’esperienza delle entità attuali che la precedono e l’oggetto dell’esperienza di quelle che ad essa seguono.

Soggetto e oggetto hanno dunque un valore – per così dire – prospettico, in quanto ogni entità-evento è simultaneamente l’uno e l’altro. Se è vero che, con le parole di Gilles Deleuze «un evento è inseparabilmente l’oggettivazione di una prensione e la soggettivazione di un’altra», è dunque nell’asimmetria della prensione che si generano le posizioni relative di soggetto e oggetto: in altre parole, non è l’esperienza che presuppone un soggetto a suo fondamento ma, al contrario, è l’esperienza che pone il soggetto, rinominato “supergetto” proprio ad indicarne la sopravvenienza rispetto all’esperienza concreta.

Dal quadro che si è tentato fin qui di delineare possono forse intravedersi alcuni dei motivi che fanno di Processo e realtà, secondo chi scrive, un’opera a cui forse il tempo non ha ancora reso abbastanza giustizia. Con brillante concisione nel 1963 Nynfa Bosco (nella sua introduzione alla prima edizione italiana) la definì un’opera arcaica e avveniristica insieme: arcaica perché premoderna, avveniristica perché profondamente in contatto con i progressi della matematica e della fisica del suo tempo, con cui Whitehead, anche nelle vesti di filosofo, conservò un incessante dialogo. Oltre alla miniera di spunti teorici che ancora oggi possono interrogare il lettore, nonché il fascino che quest’opera inattuale e al tempo stesso visionaria non smette di esercitare, vi è ragione di ritenere che l’eredità filosofica di Processo e realtà vada cercata soprattutto in quel grandioso sforzo speculativo di cui essa testimonia la possibilità (prima ancora che l’esempio) e a cui la filosofia, al giorno d’oggi, ha forse con troppa facilità abdicato.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, La piega. Leibniz e il barocco, Einaudi, Torino 2004.
G. W. Leibniz, Monadologia, Bompiani, Milano 2001.
A.N. Whitehead, Il processo e la realtà. Saggio di cosmologia, Bompiani, Milano 1965.
Id., Processo e realtà. Saggio di cosmologia, Bompiani, Milano 2019.

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