Il cinema contemporaneo, recentemente, ha più volte gettato luce sui casi di pedofilia all’interno della chiesa, sia sotto forma di inchiesta, Spotlight (McCarthy 2015), sia per indagare il trauma e il processo di espiazione di chi perpetra la colpa, El Club (Larrain 2015), così come la rielaborazione di chi di essa è stato vittima, Grazie a Dio (Ozon 2019). Il cinema documentario, nella sua indagine, detection, della realtà, si è concentrato ampiamente sulle storie di abusi, mostrando in primo luogo contraddizioni e problematicità dovute al fatto di schierarsi contro un’istituzione come la Chiesa Cattolica.

Il nuovo film di Robert Greene, Procession (2021), il cui titolo fa ovviamente riferimento alla cerimonia liturgica, così come anche alla funzione espiatoria, collettiva, di sei uomini di Kansas City vittime in adolescenza di abusi sessuali da parte di preti, prosegue il discorso del regista intorno alle modalità di ri-messa in scena “creativa” della realtà, dopo Kate Plays Christine (2016) e Bisbee’ 17 (2018). Gli uomini, oltre ad essere guidati da un’avvocatessa, Rebecca Randles, per quanto concerne la battaglia legale intrapresa contro i preti, sono accompagnati verso un processo di superamento dell’accaduto da Monica Phinney, una drammaterapista che aiuta i soggetti a esprimersi e a ri-elaborare il proprio trauma attraverso l’utilizzo intenzionale e sistematico di tecniche performative. Analogamente, il cinema documentario, attraverso la pratica del reenactment, ovvero una ricreazione di «actual people or events» (Winston 1999, p. 163), dissolvendo il legame indessicale tra l’immagine filmica e l’episodio storico originale, procede verso una “fantasmatica” riconfigurazione storiografica audiovisiva, oltre che una meticolosa ricostruzione degli eventi e dei processi presi in esame.

In Procession, i sei uomini devono infatti ri-performare il trauma che hanno esperito in uno spazio scenico da ricreare. Se alcuni episodi, come la messa a cui prendevano parte in quanto chierichetti, vengono ri-messi in scena in una chiesa, anche se non quella che effettivamente frequentavano in giovane età, i reenactments degli episodi di violenza avvengono in contesti chiaramente finzionali, setting ricostruiti in teatri di posa o in altri ambienti che richiamano i luoghi originari, come la canonica. Prima del processo di ri-messa in scena, le vittime stesse si recano nei luoghi originari del trauma, non solo per annotare indicazioni ai fini della ricostruzione scenografica, ma anche perché, in quanto memory trigger, possono far riemergere il rimosso.

La ripetizione non raffigura necessariamente un atto di mimesis. I sei uomini, ormai adulti, scelgono un bambino, dopo un casting, che possa interpretare loro stessi da giovani, mentre a turno le vittime reciteranno la parte dei preti pedofili. Il processo di ri-elaborazione inizia nel momento di condivisione, nell’atto di testimoniare. Ognuno è regista del reenactment del proprio episodio. Le vittime stesse danno istruzioni recuperando i gesti che hanno caratterizzato l’esperienza, posture, espressioni, comportamenti, sia davanti alla macchina da presa che ai propri compagni, guidandoli nella ricostruzione dell’accaduto, i quali, a loro volta, procederanno con una ulteriore ri-messa in scena.

I corpi, nell’atto performativo, acquisiscono la funzione sociale di reenactor. Il corpo diventa strumento per re-interpretare e ri-significare il passato. La memoria individuale, dopo essere stata esternata e ri-messa in scena, diviene memoria collettiva, «il ritorno del passato convoca, chiamandoli a una mutua contribuzione di senso, la prospettiva di chi prende parte al progetto e, al contempo, l’investimento di chi ne è spettatore» (Donghi 2020, p. 63). In questo modo, nel momento in cui si trasmette una memoria taciuta per molti anni ad un pubblico, la ripetizione dell’esperienza traumatica comporta un processo di working through, portando l’accaduto ad una condizione di visibilità, piuttosto che alla reiterazione compulsiva dell’acting out, di chi è prigioniero di un evento che non ha assimilato cognitivamente.

La pratica del reenactment risulta allora essere una forma di figurazione che, attraverso una “fantasmatica” ri-messa in scena dell’accaduto, riflette lo sconvolgimento degli schemi di produzione di senso e di rappresentazione dovuti all’esperienza traumatica, in linea con il concetto di trauma cinema, elaborato da Janet Walker, una modalità che, attraverso specifiche strategie estetiche e formali, provvede alla frammentazione e alla decostruzione del tessuto testuale e stilistico del film, rispecchiando il corrispettivo traumatico.

Riferimenti bibliografici
B. Winston, Honest, Straightforward Re-enactment: The Staging of Reality, in K. Bakker, a cura di, Joris Ivens and the Documentary Context, Amsterdam University Press, Amsterdam 1999.
L. Donghi, Repetita iuvant. Caratteri del reenactment in prima persona, in A. Cervini, G. Tagliani, a cura di, La forma cinematografica del reale, VerbaManent, Palermo 2020.
B. Nichols, Documentary Reenactment and the Fantasmatic Subject, “Critical inquiry”, vol. 35, University of Chicago Press 2008.
J. Walker, Trauma Cinema. Documenting Incest and the Holocaust, Berkeley, University of California Press 2005.

Procession. Regia: Robert Greene; produzione: Susan Bedusa, Bennett Elliott, Douglas Tirola; musiche: Keegan DeWitt; società di produzione: 4th Row Films, Concordia Studio, Artemis Rising, Impact Partners; distribuzione: Netflix; origine: Stati Uniti d’America; durata: 116′.

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