La XXII edizione di Primavera dei Teatri diretta da Dario De Luca, Saverio La Ruina, Settimio Pisano, quest’anno ha avuto due tempi e due spazi diversi, a Catanzaro dal 27 al 29 settembre e a Castrovillari dal 30 al 6 ottobre, con un programma denso di spettacoli internazionali, nazionali e locali, residenze, incontri, presentazioni di libri, un laboratorio di recitazione cinematografica, una folta presenza di mondo teatrale intergenerazionale, e non ultimo né meno importante, di spettatori locali che hanno gremito il Teatro Politeama di Catanzaro e il teatro Vittoria e Sybaris di Castrovillari, oltre le altre location come il magnifico castello Aragonese e il Protoconvento Francescano. Abbiamo assistito a prime nazionali come i Macbeth di Vetrano e Randisi, Danzando con il mostro di Balivo/Dammacco/Latini; Confessione di sei personaggi di Baglioni/Bellani (il tema della famiglia ha predominato negli spettacoli del festival), La Divina Calabria, opera in divenire di Teatro Studio Krypton.

Strutture accoglienti, discussioni franche su temi come la funzione del critico (a partire dalle figure di Renato Palazzi e Maria Grazia Gregori), un ambiente umano in cui l’ascolto è protetto e favorito, il confronto autentico. Primavera dei teatri svolge un ruolo necessario nel contesto locale e nazionale, porta a emersione eccellenze del teatro oltre i confini della regione e nella regione. Un’isola, in un contesto in cui le relazioni con le istituzioni teatrali e culturali e con le stesse realtà teatrali sono difficili, in cui una legge regionale sullo spettacolo dal vivo, frutto del lavoro degli operatori teatrali già dal 2004, non è stata applicata. Scena Verticale, come le altre compagnie che risiedono in Calabria, si confronta ancora con una minorità storica del teatro in questa regione, come ricostruisce il volume Teatro in Calabria 1870-1970 (a cura di V. Costantino e C. Fanelli) da cui si  riscontra che il teatro, fin dall’unità d’Italia non è stato un genere frequentato dai letterati calabresi, che non avevano nessun rapporto con la scena materiale, né tantomeno con la cultura orale, distanti dalle questioni come il brigantaggio, l’emigrazione transoceanica, la questione della riforma agraria, l’occupazione delle terre.

La drammaturgia meridionale è stata bozzettistica, per cui il dramma sociale è stato stemperato in melodramma e in questa veste è stata accolto nei teatri del Nord Italia (e anche all’estero), in quanto smorzava l’alterità in «esotismo», ruolo assunto nel nuovo millennio dal teatro di Emma Dante. A partire dagli anni novanta, ci sembra che in Calabria si registri un recupero di storia e di memoria, un genius loci, un sentimento d’appartenenza ad una grande storia del Novecento che ritroviamo in spettacoli come La Stanza della memoria di Scena Verticale, Roccu u sturtu (Fulvio Cauteruccio, Francesco Suriano e Il Parco delle Nuvole Pesanti), Bastimenti di Cataldo Perri, L’arrobafumo (Francesco Suriano e Peppino Mazzotta), 70 volte sud di Manachuma Teatro. Per genius loci intendiamo un dispositivo che prende la sua peculiare forma dall’abitare quel particolare paesaggio, creazione di un luogo mentale, un dispositivo generatore di immagini e passioni che alimentano il mondo poetico di un autore: un paesaggio con la sua geografia, clima, aria, luce si trasforma in spazio della rappresentazione. In questa prospettiva, fra le tante proposte del festival, prendiamo due spettacoli: Real Heroes di Mauro Lamanna e Aguilera Justiniano e Vite di Ginius di Max Mazzotta, in quanto ci sembrano declinare il genius loci in una struttura drammaturgica e spettacolare di rilevanza contemporanea.

Real Heroes è un percorso che si costruisce, nelle città in cui si dà, una «performance immersiva», come l’ha sottotitolata in  modo accattivante l’autore: perché bisogna che ciascuno delle trenta persone si metta in ascolto – camminando come un drappello illuminato dalla luce delle cuffie nelle strade di Catanzaro e di Castrovillari segnate dal percorso che abbiamo sperimentato – dei luoghi che attraversa. “Respira e pensa, ascolta la realtà, passeggiare è un atto rivoluzionario, è il refrain che il camminatore-pensatore-ascoltatore ode attraverso le cuffie. L’audio, ben costruito come in un programma radiofonico, agisce come una esortazione e nello stesso tempo coinvolge con il racconto di storie di «eroi» che hanno opposto resistenza ai contesti politico e sociali in cui agivano e vivevano. La voce del narratore racconta storie ambientate in Cile durante la dittatura militare, montate con brani musicali, rumori, applausi di spettatori invisibili, come se ci trovassimo in una sala teatrale: negozi incendiati, manifestazioni di protesta in cui a una certa ora, l’ora del casolarato, tutti sbattono pentole e padelle, e la città rimbomba  anche delle sirene della polizia che lancia lacrimogeni; racconta di persone che si sono date fuoco come atto di ribellione al governo di Pinochet che ha fatto sparire milioni di cileni, va indietro alla colonizzazione spagnola, facendo rivivere la figura del guerriero Mapuche Lautaro. L’esortazione è: “Non ci fermiamo finché non facciamo la storia”. Fare arte in Cile è una forma di resistenza.

Dal Cile dei colonnelli il narratore ci trasporta nella Calabria della “ndrangheta”, in cui un giovane appassionato di cinema che trasforma questa sua passione in un lavoro da cui ricavare da vivere, aprendo un negozio di noleggio di videocassette, si vede costretto a pagare una tassa mensile (“il pizzo”) all’organizzazione mafiosa locale e, quando non può più pagare, perché ridotto al lastrico e la sua vita distrutta, il suo negozio viene incendiato. La metafora è fin troppo letterale: «Non è stata pagata l’assicurazione antincendio». Ma l’eroe, «guardando in alto e avanti», entrando nei film di Spike Lee, continua a vivere senza tradire le proprie passioni. Real heros ha una forte tensione pragmatica: si possono perdere tutte le battaglie ma si deve continuare ostinatamente a combattere, «non si può essere morti da vivi».

Vite di Ginius è un assolo corredato da proiezioni video e pochi oggetti in cui Maxmilian Mazzotta dispiega la sua qualità di autore-attore, capace di trasfigurare con un respiro epico le storie tragiche di figure prese dalla cronaca.

Lo spettacolo è una metafora visionaria in versi e prosa. Il verso con il suo scorrere musicale descrive il soprannaturale e i molteplici stadi dell’essere. Abbandonato il corpo, l’anima di Ginius si ritrova nella barca di Caronte guidata da una misteriosa voce che è anima che si reincarna. Costretta a scavare dentro sé stessa, l’anima deve ripercorrere l’esperienza di alcune sue vite incarnate (M. Mazzotta, programma di sala).

La prima figura reincarnata è quella di Za’ Popa, una vecchietta di un villaggio calabrese del 1800 che riprende la vicenda del bambino caduto in un pozzo a Vermicino, una borgata di Roma, Alfredino Rampini. La seconda storia riguarda un femminicidio che viene raccontato da Nanni, venditore di scarpe, nella Roma degli anni sessanta. La terza fa rivivere un’altra morte violenta, Gianni che uccide Nino, il fratello malato di mente rinchiuso in un istituto in una città del nord Italia. Ma la serie di reincarnazioni in figure negative che stroncano vite, anche involontariamente, come Za’ Popa, si chiude con un gesto di amore che apre alla catarsi.

Il testo scritto e rappresentato da Maximilian Mazzotta è complesso, in italiano e in dialetto con parti in versi composti sul modello dell’endecasillabo concatenato dantesco, fondendo narrazione epica e realismo. L’assolo mette in scena un linguaggio fatto di azioni, parole, gesti in cui l’attore-autore ha introiettato una pluralità di voci che restituisce fantasmaticamente, grazie alla capacità di raffigurare, staccandosi dal proprio corpo, delocalizzandosi con gli speaker. Si tratta di un assolo polifonico che reincarna diverse presenze grazie al dinamismo della voce, una performance che mescola dire e fare, verbale e non verbale, stratifica diversi piani di realtà, combina la prima con la terza persona, il ricordo personale con il documento (Valentini 2020, p. 130). La metafora della reincarnazione (aldilà del libro di Jan Stevenson, Prove di reincarnazioni) in questa prospettiva si fa portatrice di una molteplicità, non tanto della singola identità. Si tratta di una voce plurale perché trasporta le voci del mondo, ricrea esperienze, comportamenti, memorie immagazzinate che passano attraverso la materia espressiva dell’attore-autore-corpo-voce.

Riferimenti bibliografici
V. Costantino, C. Fanelli, Teatro in Calabria 1870-1970. Drammaturgie Repertori Compagnie, Edizioni Monteleone, Vibo Valentia 2003.
V. Valentini, Teatro contemporaneo, Carocci, Roma 2020.

Foto di Guglielmo Verrienti.

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