Deleuze ha ragione: essere di sinistra è una questione di percezione più che di governo. «Si è di destra – dice a Parnet nel celebre colloquio-abecedario, alla voce “Gauche” – quando si parte da sé, dalla via dove ci si trova, e poi ci si allarga alla città, allo Stato, agli altri Stati e via via sempre più lontano», ma mai troppo. «Essere di sinistra è il contrario. È percepire prima di tutto il perimetro, l’orizzonte… Si dice che i giapponesi percepiscano così. Non percepiscono come noi. Direbbero: il mondo, il continente, l’Europa, la Francia, la rue Bizerte… io» (Deleuze, dalla voce “Gauche” dell’Abecedario). Perciò, se chi è di sinistra avverte che i problemi di Gaza e dell’Artico sono più vicini a sé dei problemi del suo quartiere non è perché la sua anima è più bella ma perché è più estesa.
Anche se non sempre verificabili presso chi, nel nostro tempo, si dice di sinistra, le parole di Deleuze sono ancora attuali perché permettono di far chiarezza su un fenomeno, il populismo sovranista, che, al netto di una fiorente e già sterminata letteratura scientifica, continua a sfuggire alla presa del sapere. Ridurre la distinzione destra-sinistra a una questione di percezione consente infatti di fondarvi, altresì, quella tra populismi e sovranismi da un lato e democrazie, sia di sinistra che di destra, liberali, internazionaliste e cosmopolite dall’altro. Dunque, di sorpassare o ricalcolare la stessa distinzione tra destra e sinistra – oggi obsoleta – a vantaggio di quella, possiamo dire riprendendo i termini impiegati da Ronchi nel suo ultimo lavoro, Populismo/sovranismo. Una illustre genealogia (Castelvecchi 2024) tra il chiuso e l’aperto, lo statico e il dinamico, l’omogeneo e l’eterogeneo. Non solo: essa rende anche ragione del fatto che l’elettorato medio dei partiti populisti e sovranisti è composto, per lo più, da quella che Sloterdijk, in Ira e tempo, ha chiamato «la figura cosmico-storica dello sfigato» (2008, p. 148). Questa creatura del risentimento diventa un “underdog” quando ce la fa nonostante fosse stata data come perdente da tutti i pronostici. E farcela significa insorgere contro l’autorità, della scienza, della finanza o delle procedure della democrazia: «Ad ogni latitudine del pianeta – scrive Ronchi – il populismo si è fatto paladino e portavoce degli “insorti”. Da qui il suo successo, la sua capacità universale di fascinazione. Esso si rivolge a quanto vi è di più astratto da ogni contesto storico, vale a dire alla singolarità irriducibile (e rabbiosa) che è racchiusa nel pronome “Io”. Un “Io” lo siamo tutti. Un “Io”, soprattutto, vogliamo esserlo tutti e, nel tempo della comunicazione istantanea resa possibile dalla rete, lo possiamo essere di fronte a tutti» (2024, p. 23). Il tesoro dello sfigato è l’identità, perché è questa, com’è stato detto (Benvenuto 2021, p. 127), la “nuova” ricchezza dei “nuovi” poveri: costoro non sono più tali soltanto perché svantaggiati economicamente ma anche e soprattutto perché si sentono tagliati fuori e/o minacciati dal mondialismo economico, tecnologico, linguistico e culturale. Gli sfigati provengono da gruppi sociali non più facilmente riconducibili a classi, e lottano per il riconoscimento facendo fronte comune in virtù della comune percezione di non avere abbastanza voce e visibilità nello spazio pubblico (di norma percepito come spazio dell’ingiustizia e dell’inganno in quanto spazio del successo altrui che, all’occorrenza, vale la pena falciare con un’auto in corsa noleggiata presso qualcuno dei suoi negozi). Se non votano sinistra è perché la sinistra è ormai divenuta il referente degli integrati, di coloro che hanno successo. In breve: delle élites (il sé di sinistra si è contratto, e ha smesso di “divenire minoritario”). Gli “apocalittici” preferiscono la destra, o anche la sinistra, “provincialista” e, affidandosi a leaders che percepiscono simili a loro, che sono il loro ideale di soddisfazione (chi si aspetta meno dalla politica chiede di più al politico come star mediatica: non l’esperto, ma il seduttore-taumaturgo), sperano di salvare ciò che reputano proprio – Dio, patria e famiglia – dalla vorticosa e perversa liquidità baumaniana che tutto mescola, e alla fine scioglie, alla velocità della luce del villaggio globale.
Dai movimenti no-global al M5S, passando per le insurrezioni delle banlieues, gli Indignados spagnoli, gli ultrà ecologisti, i gilets jaunes e i vari fronts populaires, ovunque si registra una tendenza a voler fermare il progresso e invertire la rotta, ovunque un coro si leva e dice “No! Vaffanculo! Prima noi! Alziamo muri!”. E anche quando gli argini non sono invocati per placare un bisogno di sicurezza bensì di felicità – in tal senso, anche per Ronchi emblematico è il caso di Illich – una certa avversione nei confronti dell’establishment e, più in generale, di ciò che è percepito come “sopra” – la casta – è la cifra dominante di questo con-sentire. C’è rabbia, ed è sempre Sloterdijk ad aver descritto i nuovi partiti come “banche d’ira” che soffiano sul malcontento aizzando una paura che Ronchi definisce “fàtica”. Astratta come la libertà che rivendica – la libertà dalla verità e dalla necessità che Ronchi oppone, mostrando però come ne derivi, all’illuministica e intellettualistica libertà per la verità e la necessità – «essa crea, per il solo fatto di essere enunciata, una comunità momentanea tra estranei tutti ugualmente percorsi da brividi di paura» (ivi, p. 31) che insieme, di conseguenza, vogliono estraniarsi, chiamarsi fuori e spaventare chi pensano sia il responsabile del loro tremore (l’individuazione di un nemico o di un capro espiatorio è un altro minimo comune denominatore del populismo sovranista e, perciò, anche paranoico). Non soltanto, infatti, questi movimenti scommettono sul fatto che vi sia un exit dall’interconnessione e interdipendenza planetarie tanto nella forma di un’interruzione quanto in quella di una rivoluzione, ma lo credono convinti di essere, almeno a casa loro, nel loro intimo, padroni. Freud lo ha negato più di un secolo fa, ma il negazionismo degli sfigati, oltre all’efficacia dei vaccini e al cambiamento climatico, ha negato, e anzi forse ignora del tutto, la psicoanalisi. Tuttavia, sia per ragioni strutturali che contingenti, di ciò che accade su scala globale, solo una spiegazione psico-politica può rendere conto. Ronchi ne intavola una filosofica, appoggiandosi all’antropologia, alla linguistica e all’arte, segnatamente la settima e, ancora più nello specifico, a una delle tante specie della sua grammatica: gli zombie movies. Ma l’illustre genealogia schizzata in queste pagine rischia, così, di non mordere su quel reale che, pure, vorrebbe afferrare (la libertà della verità che Ronchi designa come un terzo rispetto all’«immaginaria» (ivi, p. 18) libertà dalla verità e a quella «frigida» (ibidem) per la verità è una libertà del reale nel senso soggettivo del genitivo). D’altronde, le stesse parole di Deleuze, autore caro a Ronchi che, anche stavolta, gli dedica una certa attenzione (l’ultimo capitolo del saggio è un elogio del metodo schizoanalitico in quanto esempio del “Grande Metodo” indicato da Brecht come antidoto al fascismo di cui il populismo sovranista è una variante: una «dottrina pratica delle alleanze e dello scioglimento delle alleanze» (Brecht 2019, p. 103) frutto di una metis riformista e revisionista), invocano questo tipo di spiegazione: che essere di destra o di sinistra sia una questione di percezione ci obbliga a studiare come la percezione si strutturi e funzioni, come mai percepiamo in un modo anziché in un altro scomodando non tanto l’estetica trascendentale kantiana, che non è una teoria dell’aisthesis, ma l’estetica economica freudiana e, poi, batailleana.
Gli sfigati sono la “parte maledetta”: i resti, les gueules cassés, i révenants o i maranza con cui, Ronchi lo riconosce en passant, la psicoanalisi ha cercato, insieme all’arte di avanguardia, di avere a che fare mettendo in atto quella politica “cibernetica” in senso platonico che, con un neologismo, definisce “cosmo-bio-riformismo”: un governo, possiamo tradurre, di tutte le percezioni, anche le più piccole, anche le più insignificanti, che, soltanto, può ribaltare quel che la historia magistra ci ha messo più volte sotto gli occhi: l’uso dei loosers da parte dei vari fascismi. Solo una tale estetica, che Brecht, insieme con Gramsci, pensa come un’arte estrema del negoziato e del compromesso, mentre Deleuze come una giurisprudenza o casistica delle singolarità (essere di sinistra – dice a Parnet – significa anche «creare del diritto» piuttosto che «fare dichiarazioni sui diritti umani», Deleuze dalla voce “Gauche” dell’Abecedario), è capace di «affermare il più basso», di «fare della degradazione un oggetto di affermazione» (Deleuze 1997, p. 306) intercettando gli investimenti libidici che strutturano gli atti percettivi. Questo significa, per il Freud di Psicologia delle masse e analisi dell’io, testo imprescindibile per capire di cosa il populismo sovranista è fatto (identificazione, amore e ipnosi con il capo e, quindi, con gli altri elementi della “massa”), «comprendere psicoanaliticamente» (Freud 1989, pp. 280-81). Nel nostro caso, si tratta di individuare cosa spinge (pulsione è Trieb) un soggetto a “fregarsene” del vero e del necessario, a rispondere “preferirei di no” a una lecita richiesta di lavoro (lo scrivano Bartebly, insieme all’anarca di Stirner e all’uomo del sottosuolo di Dostoevskij sono fra le esemplificazioni del prototipo fascista-underdog che Ronchi, rompendo con una certa dogmatica, e italiana, immagine del pensiero ha il merito di scovare), o a percepire il proprio io come dotato di un potere assoluto: quella “potenza dei contrari” o “possibilità di possibilità” che Ronchi, qui come altrove, si sforza di smantellare proprio al fine di rendere praticabile la via brechtiana: una via “megarica”. A tal scopo, occorre risalire al darsi del dato piuttosto che accomodarsi sul dato assumendolo come fatto e finito, perché il metodo brechtiano, al pari di quello psicoanalitico, è l’empirismo radicale o trascendentale che Deleuze, in Differenza e ripetizione, chiama anche “estetica apodittica”: una logica dei movimenti aberranti che, invece di liquidare ciò che non è immediatamente intelligibile come fenomeno “di pancia”, s’impegna a trovare la ragione persino dei moti delle viscere.
Ronchi condivide e applica questo metodo. Già nell’introduzione dichiara che il livello filosofico è quello genealogico e che, «a differenza delle cause che interessano lo storico, l’origine ha la peculiarità di non assomigliare al fenomeno che ne deriva» (2024, p. 8). Nondimeno, se non si spiega in termini di libido, se non si parte dal fatto che, come dice Freud nel Saggio sul motto di spirito, «l’uomo è un instancabile ricercatore di piacere» (1976, p. 113), la pur efficace e controintuitiva genealogia filosofica del populismo sovranista secondo cui esso sarebbe il prodotto della medesima libertà che, dalla sua diffusione virale, si sente oggi assediata (la libertà dei moderni codificata dal Cartesio del primato del volere sull’intelletto e sancita dal Kant del sapere aude), resta una tassonomia concettuale quando invece vorrebbe funzionare come un insieme di parole che, ancora citando Brecht, «rendono possibile l’azione» (2019, p. 103). Ronchi, va detto, solleva a più riprese una domanda trascendentale circa la natura del soggetto sovranista-populista e della specifica autonomia che rivendica. Ma la risposta che offre è ancora troppo storica, empirica, incapace, cioè, di attingere il “vero” trascendentale. Per mostrarlo mi concentro su un punto nevralgico del saggio: le parole con cui, in un articolo pubblicato sull’Avanti, Mussolini commenta il suo discorso al congresso del partito socialista di Reggio Emilia del 1912: visto che il partito ha un’anima religiosa e la sua forma è l’ecclesia, la Gemeinschaft anziché la vile e borghese Gesellschaft, «che importa al proletariato – domanda il futuro Duce – di capire il socialismo come si capisce un teorema? Il socialismo è forse riducibile ad un teorema? Noi vogliamo crederlo, noi dobbiamo crederlo, l’umanità ha bisogno di un credo. È la fede che muove le montagne perché dà l’illusione che le montagne si muovano. L’illusione è, forse, l’unica realtà della vita» (De Felice 1965, p. 128). La chiusura del passo conferma la definizione di mito tecnicizzato che Ronchi ricava rileggendo Jesi: «Un’allucinazione volontaria che non allucina la realtà, creando una falsa percezione, ma la stessa potenza di allucinazione» (2024, p. 48). Secondo Ronchi, questa è l’operazione tecnica che il giovane Mussolini propone scientemente ai suoi convinto, anche sulla scorta della lettura di Sorel, che la chiave di volta della rivoluzione socialista sia «la potenza del falso saputo come falso» (ivi, p. 57) , «la credenza saputa come tale» (ivi, p. 48). La mobilitazione totale richiede che si faccia della verità un mito benché ciò non significhi, precisa Ronchi, «che le masse devono essere ingannate con false percezioni, quanto piuttosto che devono essere alimentate con il solo cibo spirituale che è capace di nutrirle. Quel cibo è il mito, ossia, nel linguaggio del giovane Mussolini, l’ideale» (ivi, p. 57). Ronchi, però, sostiene anche che la macchinazione del vero è un’operazione tipicamente moderna. Anzi, che «non si può parlare di tecnicizzazione del mito al di fuori dell’orizzonte moderno» (ivi, p. 61). Laddove le canoniche interpretazioni della genesi del fascismo insistono, concordi, sul tema della “fuga dalla libertà”, dell’“identificazione col capo”, della “minorità intellettuale”, Ronchi avanza l’ipotesi che è il pensiero illuminista ad aver promosso e costituito «la sola soggettività capace di quell’operazione di tecnicizzazione» (ibidem): la soggettività della volontà infinita, ex lege, «che decide di credere alle sue produzioni immaginarie» (ivi, p. 48) perché, come dice Berlin a proposito del soggetto neoliberale – un altro volto dell’anarca sovranista – «a fondare il diritto assoluto di una convinzione è il solo fatto di essere una mia convinzione» (2005, p. 166) (motivo per cui, secondo alcuni, Stirner anticipa Nietzsche quantunque il “mio” nietzschiano non sia mai un “proprio” o un “pieno”). Quindi, conclude Ronchi, l’allucinazione allucinata, o mito tecnicizzato, è «la stessa “verità” prodotta dall’Illuminismo» (2024): una verità a disposizione della libertà creatrice del soggetto.
Ora, tralasciando il fatto che illuminismo si dice, come ogni cosa, in molti modi e che Ronchi non è molto generoso nei loro confronti, chiediamoci se una tale tecnicizzazione – Ronchi lo suggerisce giocando il Bergson delle Due fonti contro Jesi – sia davvero un fatto storico anziché un evento trascendentale, sempre in atto, entro il quale siamo e dal quale siamo agiti anche quando agiamo come macchinisti della verità. Presentando la funzione fabulatrice come il sostituto dell’istinto una volta che lo si è perduto, dunque come il sostituto intelligente dell’istinto – «un succedaneo del succedaneo» (2024, p. 48) traduce Ronchi – Bergson, in effetti, contesta avant la lettre la distinzione tra mito genuino e mito tecnicizzato poi superata dallo stesso Jesi: con buona pace dei cultori dell’autentico, del primitivo e più in generale dell’exit, dice Ronchi, stando alle Due fonti della morale e della religione, «il mito è fin dall’inizio ben poco genuino perché ha sin da subito la natura dell’operazione tecnica promossa dall’intelligenza fabbricatrice» (ivi, p. 46). La sua funzione è «compensare, nella forma della fabulazione, l’inquietudine generata dall’intelligenza disgregatrice» (ibidem) la quale, pertanto, dev’esser sempre presupposta, proprio come un trascendentale, al mito. Quest’ultimo ripristina l’immediato di cui l’avvento dell’intelligenza sancisce la perdita «producendo il miraggio di un’integrazione con una natura da cui l’intelligenza ci ha per sempre espulso» (ivi, p. 47). Ma come non vedere nella ricreazione dell’omeostasi infranta quel che la psicoanalisi ci dice circa il rapporto che il soggetto nevrotico ha con il godimento, per definizione perduto? Come non vedere nell’emulazione dell’automatismo dei non umani intrapresa dalla funzione fabulatrice con i mezzi che le fornisce l’intelligenza l’instaurazione di quel principio di piacere che altro non è se non una guida empirica, che nella ripetizione ha il suo principio trascendentale (il piacere è della ripetizione nel senso soggettivo del genitivo), con cui, invano, tentiamo di tornare indietro, all’insetto, all’inanimato o alla Cosa che, peraltro, è ritenuta perduta solo per effetto di un’illusione retrospettiva? E come, infine, non scorgere nella consolazione offerta dalla fabula quell’archi-consolazione con cui il fantasma, nella sua funzione fondamentale scoperta dalla psicoanalisi, rimedia alla perdita di godimento concomitante all’impatto del linguaggio – Lacan parla di significante – sul corpo grazie a cui il soggetto accede al simbolico? Come, cioè, non vedere nelle parole di Mussolini che catturano l’attenzione di Ronchi, un’inquietante, e chissà, forse cosciente, presa d’atto di ciò che la psicoanalisi non si stanca di ripetere, ossia che percepire è allucinare, che facciamo della realtà– che per la psicoanalisi è sempre e solo psichica – con il piacere e che questo fare è precisamente il fare della funzione fabulatrice, alias il fantasma, un fare trascendentale perché senza autore (“un bambino viene picchiato” è la piccola enunciazione di quella piccola percezione che è il fantasma) proprio come il fare della macchina mitologica e della grammatica cinematografica secondo Ronchi? Eppure, se le cose stanno così, come intendere quel “volontario” messo accanto ad allucinazione sia da Bergson che da Ronchi? Di che volontà si tratta? Chi è il soggetto che sa del falso del falso? E che sapere ha?
Da un punto di vista psichico, quello che Šestov, ripreso da Ronchi, condanna come un misfatto – il primato dello iubere sul parere – è un fatto indiscusso, un dato immediato. Non soltanto, com’è detto nel saggio sulla Negazione di Freud, il giudizio di attribuzione precede quello di esistenza e dunque la soggettività sopravanza l’oggettivo (Kant aveva sostenuto qualcosa di simile quando, nell’Analitica del sublime, aveva affermato che la valutazione estetica delle grandezze precede quella matematica). Nella sua funzione fondamentale il fantasma – che non è la fantasia – è la prima macchina mitologica, la prima macchinazione del vero, il primo cinema, volendo, in quanto è il trascendentale della nostra percezione e comprensione del mondo: quello di cui, come dice Ronchi commentando il primo livello dell’allucinazione corrispondente al mito genuino o antico, «non riusciamo a enucleare l’eidolon» (2024,p. 49) perché, va aggiunto, quell’eidolon siamo noi come soggetti coscienti fatti dal fantasma in quanto inconscia immagine immaginante («cogito, figuratur» (2008, p. 60), scrive Nancy in Ego sum). In altre parole, al pari delle fantasie, i miti e le credenze, anche l’io è un’immagine immaginata: quella, dice Ronchi commentando il secondo livello dell’allucinazione, il livello tecnico o moderno, che riusciamo a cogliere «in flagranti» (2024, p. 49), nel suo attivo funzionamento. Ma cosa significa cogliere il falso come tale nel vivo della sua produzione? Produrlo? Vederlo prodursi? E dove? Allo specchio? Oppure svegliarsi, essere lucidi, attraversare il fantasma e prenderne il posto diventando il regista dei propri sogni, il fabbricante dei propri simulacri? Ma non è questo l’invito di Nietzsche, credere alla realtà che fabbrichiamo senza aderirvi? E non è quest’invito una versione della lucidità che Spinoza prima di Kant e Freud, tentò di provocare con la sua Etica amata dai brechtiani di tutto il mondo? Ma allora tra risveglio e sonno, o sogno, c’è un rapporto? Che cosa significa, insomma, “allucinare la potenza di allucinazione”? Questa è la domanda che residua e insiste, almeno per chi scrive, dalla lettura del saggio di Ronchi. Che tipo di operazione ha davvero in mente? Senz’altro si tratta di attingere un livello “meta”, di secondo ordine come lo definisce. Ma è possibile riprodurre ciò che ci produce come se, realmente, esistesse l’istante in cui la potenza si interrompe e il soggetto crede di potere una cosa e il suo contrario nello stesso tempo? Per Ronchi, che nei suoi ultimi lavori insiste a criticare la credenza in questo istante – quello della contingenza sincronica di Scoto – “allucinare la potenza di allucinazione” significa sottomettere la realtà al volere, fare della realtà-verità qualcosa di creato dal soggetto in un tale istante privilegiato. Tuttavia, se l’allucinazione è volontaria e la volontà è quella del soggetto di cui Ronchi schizza la genealogia, come può l’allucinazione funzionare? Se c’è una coscienza che delibera e sa, come può l’illusione prendere il posto della realtà e l’intelligenza il posto dell’istinto? Forse che la prende per coloro che ricevono il cibo dell’ideale e non per chi lo offre visto che, come ebbe a dire Krauss «il segreto dell’agitatore politico è di rendersi stupido quanto i suoi ascoltatori in modo che questi credano di essere intelligenti come lui» (1994, p. 111)? Ma non è anche l’agitatore un ego cogito fabbricato dal fantasma, l’ego sum ego existo, da Ronchi accostato al living dead, che sempre resiste, resta e residua? E non è anche la credenza che il socialismo vada creduto un prodotto del fantasma in quanto macchina per fabbricare credenze o dèi, come dice Bergson chiudendo le Due fonti? E, se questo è il caso, cos’altro può voler dire “allucinare la potenza di allucinazione” se non allucinare ancora e ancora, dormire, come dice Lacan, da mane a sera? Cosa se non catturare gli altri nel proprio sogno, ipnotizzarli? (questo, del resto, accade secondo Freud appena l’individuo entra in massa, il solo secondo ordine di cui, per lui, si può parlare: i collettivi sono ipnotici e l’ipnosi non è né moderna né storica in senso stretto essendo una forma di legame sociale che ha nell’identificazione all’altro e nell’amore che ne deriva il suo fondamento).
Il fantasma è un velo sul reale ed è il reale, più che la rivolta, ciò che, solo, può squarciarlo. Per l’ultimo Lacan godimento è il nome di questo reale e dell’unica volontà che si può ammettere anche da un punto di vista psicoanalitico: quella pulsionale o di potenza. Essa, già per Nietzsche, non è fare quel che si vuole ma volere quel che si può, quel che può, che c’è e fa, senza che noi possiamo nulla sul suo potere (il capitolo 8 del saggio di Ronchi è interamente dedicato a tale potere). Ma volere quel che si può, seguire, come dice Ronchi, «la potenza madre di tutte le cose» (2024, p. 130) o, come dicono Deleuze e Guattari sulla cui metallurgia paradigmatica della militanza antifascista Ronchi termina la sua riflessione, «la materia-flusso» (2014, p. 482), significa ancora una volta percepire ergo allucinare. Non è infatti una materia-cinema, ossia la bergsoniana materia-insieme-di-immagini, anche la materia di Mille piani? C’è arte, anche di governo, dove questa materia è soggetto dice Ronchi. Ma non è un grande sogno un tale, unico, soggetto senza nome? Non è il fantasma la sola macchina da guerra? Siccome ci pare che le cose stiano così, ossia che mundus est fabula dove fabula, da fari, rimanda tanto al dire che al delirare, tanto al mito che al destino (fatum è il participio passato), ci è parso altresì che la semplice, quasi naif, distinzione tra destra e sinistra proposta da Deleuze funzioni ancora. Che siano due modi di percezione, significa che la percezione è l’assoluto: quel trascendentale o «vera sintesi a priori» (2024, p. 105), che Ronchi, a seconda dei casi, identifica con il linguaggio, la comunicazione e la guerra civile. È questo il mare agitato entro cui ognuno di noi è chiamato a navigare ciberneticamente per quanto gli è possibile (kata dynamin è il mantra del militante antifascista): il mare dei sogni degli altri. Deleuze lo suggerisce nella conferenza sull’atto di creazione facendo tesoro della grande idea di Minnelli sul sogno: il sogno riguarda prima di tutto chi non lo fa. Perciò, che gli altri sognino è pericoloso: il sogno è una volontà di potenza divorante che può inghiottirci, dice Deleuze. «Ciascuno di noi è più o meno vittima del sogno dell’altro, anche quando si tratta della fanciulla più graziosa» (Ronchi 2024). Ed è per questo che bisogna diffidare dei sogni altrui: «Quando siete presi nel sogno dell’altro siete fottuti» (Deleuze 2003, p. 17) e, o accettate di essere zombie, estesi, o insorgete. Ma in realtà è una falsa alternativa. Che «la schizofrenia sia il solo universale» (Deleuze, Guattari 1975, p. 146, p. 153) significa, com’ebbe a concludere Lacan dopo un’intera vita dedicata all’applicazione del metodo brechtiano (“je fonde” e “je dissous” sono anche i due tempi del suo unico, e reiterato, atto analitico nei confronti dell’École), «que rien n’est que rêve, et tout le monde (si l’on peut dire une pareille expression), tout le monde est fou c’est-à-dire délirant» (Lacan 1979, p. 278). Ecco perché le decreature che qualche anno fa, in Zombie Outbreak. La filosofia e i morti viventi (Textus 2015) annunciavano per Ronchi la fine del mondo di destra, dopo un giro a Mahagonny, la Repubblica degli Insorti fantasticata da Brecht nel ‘28, diventano ora, in Populismo/sovranismo, indiscernibili da coloro che, assaltando Capitol Hill quattro anni fa, volevano metter fine al mondo di sinistra: il ruolo del living dead o dello sfigato nel pensiero di Ronchi, e nella storia dell’uomo, è un’ottima cartina di tornasole per scorgere, come Leibniz amava ripetere, che in fondo è sempre la stessa cosa a parte il grado di percezione. Dopotutto, è il ruolo dell’unica invenzione che Deleuze e Guattari riconoscono a Lacan: l’oggetto piccolo a, causa e scarto del desiderio, oggetto attraente e insieme abominevole, supporto e buco a seconda dei casi di cui solo una certa giurisprudenza può farsi carico. Il circolo dell’idealizzazione dell’altro e della sua successiva, ma spesso repentina, riduzione a merda che tiene in piedi, è molto simile a un Samsara, dunque molto simile alla vita. E la giurisprudenza è la vita, la cibernetica è la vita. Deleuze ne conclude che «essere di sinistra è un problema di divenire più che di essere» (Deleuze, dalla voce “Gauche” dell’Abecedario). Ronchi, anche se non lo dice, che la sinistra deve delirare, delirare meglio.
Riferimenti bibliografici
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Rocco Ronchi, Populismo/sovranismo. Una illustre genealogia, Castelvecchi Editore, Roma 2024.