Il 9 maggio del 1997 una studentessa sta passeggiando per le strade della Sapienza e viene colpita alla testa da un proiettile che la farà morire pochi giorni dopo. La tesi dell’accusa è che due giovani studiosi dell’università, Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone, volevano provare l’ebbrezza del crimine gratuito: si sono appostati dentro l’aula assistenti del loro istituto e hanno tirato sulla prima ragazza che passava. Si è arrivati a loro perché su una finestra dell’aula è stata trovata una particella chimica che potrebbe essere il residuo dello sparo. Ci sono testimoni che dicono di avere visto Ferraro e Scattone in quella stanza pochi minuti dopo l’omicidio e un altro che li ha visti scappare.

La morte di Marta Russo ha occupato le cronache per anni, anche dopo il terzo grado di giudizio arrivato nel 2003, per più di una ragione: la vittima giovane e bella, la mostruosità del gesto, il fatto che in un luogo dove per definizione non succede niente – l’università – era successo qualcosa. Il nuovo libro di Chiara Lalli e Cecilia Sala, Polvere. Il caso Marta Russo, ricostruisce in modo dettagliato il processo e il lavoro degli inquirenti. Dopo l’omicidio di via Poma e quello di Alberica Filo della Torre, rimasti senza un colpevole, la procura di Roma non vuole fare un’altra figuraccia, gli investigatori vanno avanti come un treno, non hanno dubbi circa la colpevolezza dei due giovani assistenti: «Il diavolo si era già impadronito della mano di Giovanni Scattone, facendogli impugnare quella pistola, tendendo il braccio verso l’esterno di una finestra dell’aula assistenti dell’istituto di Filosofia del diritto, incitandolo – è proprio il caso di dirlo – diabolicamente a premere il grilletto e indirizzando il colpo verso un vialetto normalmente frequentato da molte persone» (Lalli, Sala 2021, p. 6). A parlare così è il procuratore generale durante la requisitoria. Anche i giornalisti non si fanno mancare nulla.

Da “l’Unità” di quei giorni: «L’accostamento è ovvio, se vogliamo: l’omicidio della Sapienza ricorda in modo impressionante la trama di un film di Hitchcock, Nodo alla gola […]. Salvatore Ferraro è un cinefilo – pare abbia scritto anche delle sceneggiature – ed è altamente probabile che abbia visto Nodo alla gola […]. Se la meccanica dell’omicidio è diversa, le motivazioni psicologiche sembrano follemente identiche». State attenti, perché se avete visto anche La finestra sul cortile (1954) è altamente probabile che prima o poi taglierete a pezzi vostra moglie. Per ricostruire il retroterra dell’omicidio “la Repubblica” preferisce parlare di una «sinistra combinazione di Nietzsche e Heidegger», «una miscela di esistenzialismo e nichilismo» elaborata dentro l’istituto dove lavorano Ferraro e Scattone, descritto come una consorteria di baroni e leccapiedi dediti a teorizzare il crimine, microcosmo omertoso dove il direttore Bruno Romano tiene tutti sotto schiaffo. Metteranno agli arresti anche lui: la telefonata a una delle testimoni, in cui le chiede di non farsi travolgere dagli eventi e rimettersi a scrivere la tesi di dottorato che è rimasta parecchio indietro, è una prova che sta ostacolando le indagini e vuole coprire qualcuno.

A proposito delle testimoni: la dottoranda della telefonata, Maria Chiara Lipari, in un primo momento dice che lei è entrata nell’aula da dove sarebbe partito il colpo e non c’era nessuno. In seguito dice che c’era Ferraro. Tre mesi dopo aggiunge che c’era anche Scattone. Al contrario dei quiz, nelle inchieste giudiziarie vale l’ultima risposta. E perché no? Lipari, che è un’appassionata di yoga e psicanalisi, dice di avere «ricordi subliminali» e una «esasperata percettività» (ivi, p. 40) che non si possono comandare. La sua memoria lavora così: aspetta il momento opportuno per far riaffiorare cose dimenticate, per esempio quando ti interrogano tutta la notte in commissariato sbraitando «sputtano lei, sputtano suo padre […]. Allora ti incolpiamo a te, per cui dillo!» (ivi, p. 33). E poi tutti sanno che esiste l’inconscio, il rimosso: se sei convinto di non aver visto nulla, vuol dire che hai visto qualcosa.

A Gabriella Alletto, la segretaria dell’istituto che nega di essere stata nell’aula dello sparo e sapere se c’era qualcuno oppure no, i magistrati fanno questa obiezione: lavori nell’ufficio vicino, non puoi non essere andata nell’aula e se insisti a dire il contrario, vuol dire che l’assassino sei tu. La terza testimone, Giuliana Olzai, è invece la studentessa quarantenne fuori corso che ha visto due persone scappare pochi minuti dopo l’omicidio. Olzai non ha dubbi, non può sbagliarsi, quei due erano Ferraro e Scattone, perché lei è l’opposto di Lipari, è convinta di avere una memoria fotografica nella quale archivia i ricordi «come fossero file» in un computer (ivi, p. 97). Per esempio: arriva sulla scena del delitto, vede il corpo disteso di Marta e ancor oggi ha nella mente i suoi occhi, «quegli occhi che guardavano il cielo, quegli occhi che mi hanno sempre accompagnata» (ivi, p. 99). Solo che quando Olzai arriva sul posto, gli occhi della ragazza sono chiusi. I computer alle volte fanno scherzi peggiori del lettino dell’analista.

Rimane la prova oggettiva, non opinabile, la particella di bario e antimonio sulla finestra dell’aula assistenti. L’accusa sostiene che è la polvere di uno sparo. Ma allora come mai la stessa particella viene trovata su più o meno tutti gli edifici della Sapienza? Perché – spiegano i periti della Corte, che non lavorano né per l’accusa, né per la difesa – quella sostanza può essere rilasciata anche dalle pastiglie dei freni e lì c’è un viavai di automobili. Per la procura è un dettaglio trascurabile: la particella è la prova provata che il diavolo ha premuto il grilletto, il resto sono sofisticherie. Le indagini di polizia dovrebbero usare lo stesso metodo della scoperta scientifica, l’inferenza (ivi, p. 139). Auguste Dupin e Keplero hanno sempre a che fare con una realtà a brandelli, indizi sparsi, tracce di qualche cosa che è accaduto o sta accadendo, però non sappiamo cosa. Il mestiere del detective e dello scienziato è ricostruire l’evento che tiene assieme i pezzi sparsi, dà loro coerenza e significato. La polvere dei segni deve essere raccolta e compressa perché diventi una figura riconoscibile. La difficoltà di ogni indagine è che quasi mai i granelli stanno assieme nel modo che ci aspettiamo, bisogna procedere per ipotesi caleidoscopiche, spesso azzardate, nella speranza che ci portino a scoprire altri indizi. Se gli indizi sono troppo scarsi e l’ipotesi di partenza non permette scoprirne di nuovi, è meglio cambiare ipotesi.

Meno sono gli indizi, più difficile è fare inferenze sensate, fino al caso limite dell’omicidio Marta Russo: un indizio soltanto, la particella sulla finestra, per di più incerto. È impossibile dire se è stata depositata da una rivoltella oppure dalle pastiglie dei freni. Davanti a questa difficoltà la mente investigativa dell’accusa divorzia da ogni criterio di scientificità, smette di inferire e comincia a dedurre con la stessa violenza con la quale sono state fatte parlare le testimoni: l’assioma è che, indipendentemente da quel che è accaduto, Ferraro e Scattone sono persone spregevoli, la conclusione è che la polvere sulla finestra è stata rilasciata da uno sparo. Dietro l’assioma ci sono il sospetto e l’astio atavico che polizia, carabinieri e magistrati hanno per i figli di papà che passano la vita tra dispense e fotocopie, film e filosofi tedeschi.

Gli investigatori, portati in palmo di mano da quasi tutta la stampa, sono spesso in vena di rilasciare interviste: in passato hanno avuto a che fare con mafiosi e assassini, però «quelli hanno un codice. Ferraro e Scattone no. Sono arroganti, forti di una presunta invincibilità che non li ha fatti cedere neanche per un attimo» (ivi, p. 118). Ma non è soltanto questo. Dentro i pregiudizi negativi si nasconde una specie di speranza: che l’università – il trantran dell’esamificio e della burokràzia – sia un centro di potere più o meno occulto, comunque qualcosa di notevole e molto diverso da quel che appare. L’inoffensivo carrozzone dell’accademia italiana diventa magicamente una congiura di delinquenti. Nietzsche non è un argomento di tesi per studenti a corto di idee, ma il filosofo attualissimo dell’azione omicida. I professori non sono impiegati statali il cui massimo di perversione è arrivare in ritardo al ricevimento o scrivere libri che mai nessuno leggerà, ma crudeli campioni di coerenza e capaci di vivere le proprie speculazioni fino alle estreme conseguenze.

Le deduzioni degli investigatori hanno finito per comporre un brutto romanzo d’appendice. Se facessimo un sogno nero collettivo, tutti vorremmo essere per qualche ora i Ferraro e Scattone inventati dai magistrati, sarebbe il delirio al potere, la letteratura diventata vita e morte. Ammesso che lo facciamo, poi ci svegliamo per scoprire che la realtà è ben più prosaica ed è abbastanza forte da affondare le nostre farneticazioni. Il problema è quando i magistrati sognano a occhi aperti e si mettono a vivere i propri incubi per interposta persona, perché così è troppo comodo e il risveglio rischia di non arrivare mai.

Chiara Lalli, Cecilia Sala, Polvere. Il caso Marta Russo, Mondadori, Milano 2021.

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