Dacché ho preso coscienza dei fatti della vita, nelle quaranta
e più primavere passate, una dopo l’altra si sono accumulate
le occasioni in cui ho visto accadere eventi impensabili al mondo.
Kamo no Chōmei, Ricordi di un eremo

Grass Labyrinth (Terayama, 1979)

Se è vero che le esperienze poetiche delle avanguardie europee condussero a scelte linguistiche radicali, volte a prosciugare le sontuose tradizioni continentali ereditate dalle paroles dei sommi poeti, più impervio risulta inquadrare le creazioni in verso libero (shi) che compaiono al volgere del XIX secolo in Giappone. Mentre correnti poetiche quali imagismo, ermetismo, surrealismo e dadaismo irrompono in tutta la loro carica iconoclasta, nelle forme classiche giapponesi del tanka e dello haiku sembra già albergare il destino futuro della nuova poesia (shintaishi), tesa a scoprire la meraviglia che si annida nella quotidianità più prosaica. In ambito giapponese, è possibile rintracciare una sovrapposizione totale tra verso libero e nuovo stile poetico: la «più smaliziata riflessione metalinguistica» (Zanotti 2012) perseguita dal modernismo coevo è già presente nelle forme poetiche classiche.

Paolo Lagazzi afferma che «nessun aspetto della natura o del reale – neanche il più, in apparenza, insignificante – è indegno d’attenzione per […] i maestri dello haiku»: allora la novità più grande dei componimenti in verso libero si rintraccia nell’ampliamento del poetabile e nella tendenza alla narrazione, laddove lo haiku è più vicino alla «notazione» (Barthes 2010, p. 107) alla «successione neutra» (ivi, p. 83). Agli albori, questo nuovo stile rappresenta il tentativo di adeguamento ai canoni poetici – e soprattutto romanzeschi – della letteratura europea; tant’è vero che i primi componimenti “autoctoni” trovano spazio all’interno di sillogi il cui obiettivo precipuo è di diffondere traduzioni da poeti occidentali.

Il verso libero giapponese ha poi proseguito in piena autonomia, avviando altresì un dialogo interculturale (si pensi al già citato Barthes o, ancora, a Yves Bonnefoy). Mentre permangono i legami con la poesia classica e non mancano i rimandi culturali ed estetici alla tradizione nipponica, i componimenti brevi e i vincoli metrici (a dire il vero non così inaggirabili) finiscono con l’essere associati alla propaganda bellica e sciovinista che collega il periodo della Restaurazione Meiji, lo scoppio della Prima guerra sino-giapponese (1894-1895) e, ovviamente, il periodo di rovente militarizzazione imperialista. In questo scenario, l’erompere del verso libero, «la più suscettibile di trasformazioni anche radicali, meno limitata da imposizioni formali e contenutistiche, rispetto alla poesia tradizionale» (Orsi-Clementi 2020, p. VII), risuona come un energico controcanto.

L’antologia Poeti giapponesi, a cura di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi riparte, con le debite differenze, lì dove si era fermata Il muschio e la rugiada, la curatela di Mario Riccò e Paolo Lagazzi edita per la prima volta nel 1996, che incrociava soltanto en passant le composizioni in verso libero per intentare una sorta di canone della poesia nipponica che includesse Bashō e Buson, Issa e Masaoka. Poeti giapponesi presenta i componimenti di 22 autori nati a partire dagli anni trenta (a eccezione della grande poetessa e attivista Ishimure Michiko nata nel 1927) per arrivare sino ai giorni nostri.

Le poesie di Ishimure che avviano la raccolta non rispondono a un mero criterio “cronologico” di presentazione. Il suo impegno politico e lo sguardo rivolto all’«arcipelago avvelenato» (ivi, p. 5) prendono le mosse da una soggettività sempre presente, che non intende ricorrere ad artifici autocelanti e a partire dalla quale si tratteggiano paesaggi apocalittici. Il disastro ambientale e culturale contrassegna la storia novecentesca, divenendo vera e propria figura del contemporaneo: dalla malattia di Minamata, provocata dall’intossicazione da mercurio, alla tragedia di Fukushima in seguito al Grande terremoto del 2011.

Nell’universo poetico del Giappone contemporaneo riecheggia con forza sempre maggiore la voce delle donne che, come sostenuto dal poeta Ōoka Makoto, può tornare a fare da guida al rinnovamento stilistico-formale (e culturale), perché se «gli uomini sono attratti dalla morte […] le donne sorridono sulla riva del mare» (ivi, p. 338). Non sorprende dunque che l’opera poetica di Ōoka impieghi in maniera estesa lo hiragana, l’alfabeto sillabico a lungo definito “delle donne”, lo stesso impiegato nell’XI secolo dalla scrittrice Murasaki Shikibu nella stesura del primo romanzo moderno della storia, il Genji monogatari.

Poesia contemporanea diventa così sinonimo di ricerca, terreno di sperimentazioni e di forme e stili ibridi. Poetare significa orientare la propria voce in direzione della scoperta – o piuttosto dell’invenzione – della “soggettività”, ma senza sposarla appieno. Analizzando l’opera poetica della zainichi (giapponese di discendenza coreana) Park Kyongmi, il critico letterario Wada Takahiko rileva una progressione molto simile a quella delle inquadrature cinematografiche: «La macchina da presa dell’‘Io’ riprende […] l’‘Io’ stesso, ma dal momento che nell’inquadratura […] vengono incluse anche persone e cose che si trovano per caso vicino all’‘Io’ soggetto, ne risulta che questo venga recepito come ‘Io’ solo in rapporto con la scena casuale che lo circonda» (ivi, p. XXVII).

Dato che l’haiku – e, più in generale, «la potenza letteraria della parola muta» – aveva già «rimesso in discussione […] la logica rappresentativa del primato dell’intreccio e della codifica delle espressioni» (Rancière 2013, p. 71), le nuove generazioni di poeti, attraverso l’apertura ad altre pratiche artistiche, raggiungono una sorta di “cinematografismo poetico” che si propone di «ridurre l’eccesso di visualità» (ivi, p. 75) letteraria per risvegliare, in grado massimo, quella vocazione all’astrazione che era già propria delle forme poetiche classiche. Come accade ne La lavatrice di Misumi Mizuki: «[…] perché camicie asciugamani calze biancheria intima / mentre sollevano la schiuma – si puliscono / e perfino io – ho l’impressione di essere più pulita / il suono accelerato della centrifuga prima della fine / assomiglia a quello di un aereo che sta decollando» (Orsi-Clementi 2020, p. 303).

La soggettualità si fa sempre più diffusa e, come nel cinema di poesia, la poeticità trova il suo canale di trasmissione prediletto nel “monogatari”, nel “racconto delle cose” – non solo quello filtrato da un io poetico, ma altresì quello delle cose stesse, in rapporto alla scena casuale che l’io poetico, più che creare, osserva. In termini formali, prosa e poesia, immaginario tradizionale e piglio sperimentale, produzione colta e popolare, tornano a coesistere con una certa armonia, come testimoniano i versi di Fujii Sadakazu, preceduti da passi in prosa di respiro teorico: «La donna nasconde / un corpo nudo che ha il colore della neve / indossa / una spiaggia che ha il colore delle onde» (ivi, p. 101).

Osservare e pensare a dei concatenamenti poietici sono attività pienamente somatiche ed è per questo che, ad esempio, la Nouvelle vague nipponica coinvolge tutte le pratiche artistiche forgiando una dimensione performativa che investe il corpo del poeta, delle cose, del linguaggio. Così, Poeti giapponesi accoglie l’attività poetica di un autore quale Yoshimasu Gōzō, che va oltre il semplice reading delle proprie composizioni, dal momento che essa richiede una partecipazione fisica molto intensa nonché il raggiungimento di uno stato psicofisico allucinato tramite cui il corpo sembra muoversi e “produrre parola” inconsapevolmente.

Da qui le consonanze riscontrabili tra le sue performance e quelle dei musicisti appartenenti alla scena Japanoise (da Haino Keiji a Yamantaka Eye, passando per Masonna). Come dimostra il caso della Nouvelle vague cinematografica, la cultura giapponese mostra una predisposizione naturale alla giustapposizione, all’ibridazione, alle forme espressive crossmediali: un territorio in cui dare sfogo all’irrazionale, all’impensabile – e giungere, per questa via, a lampi di impensato – in cui la radice istintuale, erotica, carnale libera una carica poietica inconsulta.

A un versante espressivo più razionale che, fin dai tempi della rivista “Arechi” (1947-48), tenta di portare «l’esperienza della guerra, come catastrofe e disperazione collettiva» (Orsi-Clementi 2020, p. VII), si controbilancia un altro versante che riscopre, per converso, «l’elemento lirico e fonosimbolico» (ibidem), votato alle sperimentazioni più ardite. La poesia contemporanea affronta di petto la questione dell’indeterminatezza del significato (Quine) e il suo tenace rinviare a un contenuto ontologico.

È possibile dare un corpo a delle rappresentazioni mentali? In questo campo tensivo che ruolo assume la voce e a chi appartiene? Da dove osservare? Queste sono soltanto alcune delle domande poetiche più ricorrenti: «Da dove guardare la superficie dell’acqua? // dall’alto del ponte, dell’argine, o da dove si frangono le onde, // da una barca, o ancora nuotando, affondando?», si chiede Sasaki Mikirō (ivi, p. 135).

Com’è possibile, cambiando punto di vista, «prospettiva di fertilità» (ivi, p. 27), – ribadendo, come fa Tanikawa Shuntarō, la circolarità e la transitività dell’essere – stabilire chi o che cosa è la “superficie dell’acqua”? Compito del poeta è mostrare la tattilità del pensiero e dell’espressione, insufflando la vita in «un angolo che nessuno fotograferà mai […] un angolo così banale […] che non ha il minimo interesse, il minimo fascino» (ivi, p. 153)

E benché, come scrive Arakawa Yōji, i poeti sappiano che «si gela nell’epoca della parola parlata» (ivi, p. 145), non resta che accogliere la sfida del linguaggio: «Anche se la parola è una semplice / spirale di conchiglia, voglio seguire / quella sua orma vorticosa. // Anche se la parola segna ciò che non c’è, / voglio scrutare ciò che non c’è, / trascinato dalla sua assenza. // Nella parola c’è la via, c’è la via nella parola, / ripeto da bambino ostinato» (Takano).

Erodendo l’univocità significante delle parole, esse potranno andare contro la logica del lavoro e non essere più dalla parte del potere, così da dare voce a storie minori e a traumi violenti. La poesia si farà immagine e praticherà l’astrazione, diventando uno strumento attraverso cui continuare a cercare ciò che è andato perduto. Fatica sisifea – certo – ma intensamente, abnormemente umana.

Riferimenti bibliografici
R. Barthes, La preparazione del romanzo, Mimesis, Milano 2010.
D. Novak, Japanoise. Music at the Edge of Circulation, Duke University Press, Durham 2013.
M. T. Orsi, A. Clementi degli Albizzi, a cura di, Poeti giapponesi, Einaudi, Torino 2020.
W. V. Quine, Parola e oggetto, Il Saggiatore, Milano 1996.
J. Rancière, Scarti. Il cinema tra politica e letteratura, Pellegrini, Cosenza 2013.
M. Riccò, P. Lagazzi, a cura di, Il muschio e la rugiada, Bur, Milano 2016.
K. Takano, Il senso del cieloPoesie, 1955-2006, Firenze 2017.
P. Zanotti, Introduzione alla storia della poesia giapponese, vol. 2, Marsilio, Venezia 2012.

Poeti giapponesi, a cura di Maria Teresa Orsi e Alessandro Clementi degli Albizzi, Einaudi, Torino 2020.

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