Se il pensiero occidentale non è ancora riuscito a trovare una definizione soddisfacente della natura del concetto di rurale è perché, come dimostrano gli studi condotti a partire dal XVIII e XIX secolo, siamo così abituati a pensarlo attraverso categorie interpretative di matrice economica da non renderci conto che sono proprio ragioni economiche e di governo a istituire storicamente la scissione fra urbano e rurale. Pertanto, tale approccio, attraverso cui si tende a risignificare un polo piuttosto che un altro: prima la megalopoli globale ora il neoruralismo, o come più frequentemente accade ad appiattire l’uno sull’altro: città smart, città slow, orti urbani, non fa che rinnovare le ragioni alla base della scissione. Nell’era del platform urbanism, dove gli assemblaggi socio-tecnici convertono l’urbano in mero flusso di circolazione di merci, anche il rurale diviene una risorsa sottomessa alle logiche estrattiviste regolate dai dispositivi di standardizzazione, replicabilità e reperimento del prodotto. D’altra parte, è l’urbano stesso ad essere ruralizzato: da un lato, i centri commerciali che contemplano la presenza di parchi naturali, dall’altro la cattura da parte della socialità urbana di caratteristiche che sembravano appartenere soltanto al mondo rurale. Pertanto, la divisione che Tönnies propose a fine Ottocento secondo cui i modelli associativi umani si dividono in due categorie, la comunità, considerata dal sociologo una unità primaria, e la società, intesa come artificiale, decade nel momento in cui viene meno la scissione fra i due paradigmi.

In Italia, nonostante gli studi pionieristici di Corrado Barberis ed Ernesto de Martino, il rurale si presenta come una categoria presuppostale di cui i due autori indagano il portato culturale, religioso, storico ed economico senza però fornire una definizione del concetto che metta realmente in crisi i presupposti economici e di governo che lo hanno fondato. Un contributo decisivo è, invece, quello fornito da Pierre Clastres, il quale revoca radicalmente in questione la posizione di Lefebvre circa la divisione fra spazio urbano e spazio rurale. Tale scissione, sostiene l’antropologo, si afferma con la nascita dello stato, quando il despota è collocato in posizione centrale, corrispondente alla città, mentre tutto il resto è decentrato nella campagna. Anche la figura del contadino può essere considerata un prodotto della machine étatique in quanto è il pagamento del suo tributo ciò che consente al despota di continuare a esercitare controllo: è l’esercizio del potere economico e di governo ciò che istituisce tale scissione. Si tratta, dunque, di una strategia di inclusione escludente: il rurale è incluso nelle logiche della megalopoli globale e dell’ecologismo neoliberale solo per continuare a garantire lo sviluppo di processi estrattivisti. Pertanto, l’applicazione all’analisi del rurale di un modello interpretativo di matrice economica o governamentale risulta insufficiente in quanto è proprio questo il modello che ha istituito tale scissione, per cui continuare ad utilizzarlo significherebbe risemantizzare la divisione originaria continuando ad assoggettare – addomesticare, direbbero Boano e Di Campli – la dimensione rurale a quella urbana.

Dunque, se la dimensione rurale e quella urbana sono scisse per poi articolarsi nuovamente attraverso disposizioni gerarchiche, e se storicamente si verifica, di volta in volta, il prevalere di un polo sull’altro o la loro più frequente sovrapposizione, a cosa facciamo riferimento quando parliamo di rurale? Detto altrimenti, che cosa il processo di inclusione escludente tuttora in corso ha oscurato attraverso la divisione socio-spaziale postulata da questi due paradigmi?

Nella Teogonia Esiodo ricevette dalle muse il dono della poesia «mentre pascolava agnelli sotto il divino Elicone», la stessa immagine esiodea è ripresa da Teocrito nel VII idillio Le Talisie in cui narra della sua investitura di poeta. Se già nella lirica teocritea è presente una stretta relazione fra la figura del pastore, il pascolo, il canto e Pan, tali temi acquisiranno maggiore rilievo nelle Bucoliche di Virgilio in cui centrale è il tema dell’Arcadia, a cui Monica Ferrando ha dedicato un saggio erudito. In questa regione impervia vivono Ermes e Pan, il primo, inventore della lira, «divinità dei pastori e dei viandanti», espressione di una forma di vita non assimilabile a pratiche di dominio gerarchiche e autoritarie; il secondo, è il dio della giustizia cosmica, dio nomade degli spazi aperti. È a partire da questi elementi che l’autrice, attraverso una torsione filologica che ribalta completamente la posizione schmittiana sul nomos (legge), sposta l’asse analitico dal processo di appropriazione, spartizione e produzione di beni, così come lo intende il giurista tedesco, a quello relativo a un’articolazione inestricabile fra legge, musica e pascolo intesa come indivisibile e comune: «Non poteva essere qualcuno della città, della polis, a rivelare poeticamente alla modernità l’antico nomos, ma solo l’uomo che viene da fuori, “dalla campagna: ein Mann vom Lande”».

In un’intervista la filosofa avrà cura di precisare e confermare quanto detto, infatti una politica che pone al suo centro l’armonia delle tre accezioni di nomos non ha bisogno di figure di dominio in quanto nessuna di esse può ordinamentare ciò che è da sempre comune. Il nomos è basileus sia per i mortali che per gli immortali pertanto nessun sovrano può rappresentarlo. In tal senso, l’Arcadia nomina «il modello della comunità senza città e senza stato» dove giustizia e legge vivono in forma incarnata al di là di colpe o punizioni. Questo è deducibile anche dal celebre prosimetro pastorale di Jacopo Sannazaro pubblicato nel 1504, il cui titolo è, appunto, L’Arcadia, in cui la vita dell’essere umano non ha natura appropriante ma pastorale, dunque in comunione con la natura fuori dalle logiche della proprietà. Lo stesso Titiro, personaggio che compare nelle Egloghe dantesche dirette a Giovanni del Virgilio, non vorrà lasciare i pascoli, luoghi di silenzio e pace. In età contemporanea, una riproposizione di queste tematiche è possibile riscontrarla nella poesia dialettale: da Bodini a Gatti, da De Donno a Angiuli, il rurale si presenta come un luogo in cui l’essere umano diventa umano proprio attraverso legami con il mondo vegetale e animale fuori da logiche di dominio. In una celebre poesia, infatti, Bodini dirà: «Vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano: divento ulivo e ruota d’un lento carro / siepe di fichi d’India / terra amara dove cresce il tabacco». Dunque, parafrasando la stessa Ferrando, il ruolo egemonico affidato storicamente alla polis come unica dimensione in cui si esaurisce la vocazione politica dell’essere umano, ha occultato il potenziale politico e poetico insito nell’Arcadia, e per estensione del rurale, la cui idealizzazione non è che un effetto di tale imposizione storica.

Questa stessa divisione fra il mondo della città, caratterizzato da logiche di dominio e sopraffazione, e quello rurale, caratterizzato dalla giustizia e da relazioni antigerarchiche, è possibile riscontrarlo anche nella letteratura cristiana. Nel De civitate Dei si afferma che Abele, a differenza del fratello Caino, «non ha fondato nulla» (XV, 2, §2) ed è «[…] cittadino della città eterna e straniero su questa terra» (XV, 5), Caino, invece, sarà il fondatore di Enoch, la città attraverso cui si istituirà il primo tentativo di dominio della terra e che, parafrasando il maestro d’Ippona, condannerà la vita dell’essere umano a guerre e lotte di sopraffazione. D’altro canto, è la stessa etimologia dei nomi dei due personaggi implicati nel fratricidio a suggerirci una chiave di lettura: come confermato da Girolamo nel Liber de nominibus hebraicis, Caino deriva dall’ebraico qānāh (possesso), mentre nel nome Abele, secondo una nota esegesi, un orecchio antico sentiva il «soffio effimero», quel habel habalim, hakkol habe del Qohélet in cui la vita dell’uomo non è che fumo, come lo fu quella del pastore primordiale. La città di Dio è quella in cui l’essere umano, similmente ad Abele, vive senza appropriarsi di nulla, come un pastore, mentre Caino, proveniente dal maligno, figlio del serpente che causò la cacciata dal giardino di Eden, è colui che in qualche modo partecipa alla storia del dominio dell’essere umano sulla terra.

Crisostomo, nel fornire indizi sul giardino di Eden, afferma che «non c’erano né città, né arti, né case, di cui voi tanto vi preoccupate, […] tuttavia nulla ostacolava o impediva quella vita beata, molto migliore della presente». La stessa tradizione teologica attesta come la vita edenica si realizzava in una dimensione antigerarchica e antiegemonica, testimoniata anche dalla prossimità non soltanto etimologica che esiste fra Ādām e ādāmāh, fra l’essere umano e la terra, i quali sono co-originari e si implicano vicendevolmente. Anche la letteratura francescana conferma tale assunto: i frati vivevano rifiutando ogni tentativo di possesso e logiche di proprietà.

Tematiche similari ritornano nei trattati di botanica del Cinquecento e Seicento, i quali si interrogano sul ruolo delle piante nel giardino di Eden e su come esse contribuissero alla felicità dell’essere umano. A tal proposito l’autore del trattato Adam in Eden, or Nature’s paradise. The history of plants, fruits, herbs, and flowers (1657) insiste sulla relazione fra il giardino, le piante e la felicità dell’essere umano, felicità che può essere restaurata proprio recuperando questa relazione perduta. Ancora, la vita nel giardino non era ritmata dalle logiche del lavoro, ma dalla relazione con le piante: sono esse a dare felicità all’essere umano. Pertanto, ogni volta che proviamo a stabilire una relazione di questo tipo con il mondo vegetale – e possiamo aggiungere anche animale – non facciamo altro che ricostruire i frammenti del giardino perduto e in questo e non altro, volendo nuovamente parafrasare l’autore del trattato, consiste l’appagamento celeste.

Proprio questa relazione fra mondo terreno e mondo celeste, fra piante e stelle, è ripresa da Osvaldus Crollius, il quale afferma che: «Le stelle sono la matrice di tutte le piante e ogni stella del cielo non è che la prefigurazione spirituale di una pianta, […] e come ogni erba o pianta è una stella terrestre che guarda il cielo, così anche ogni stella è una pianta celeste in forma spirituale, che differisce dalle piante terrestri solo nella materia…, le piante e le erbe celesti sono rivolte verso la terra e guardano direttamente dall’alto le piante che hanno procreato, impregnandole di qualche particolare virtù». Allo stesso modo, l’autore propone una relazione inestricabile fra l’essere umano e la terra: la sua carne è terra, le sue ossa sono rocce, le sue vene grandi fiumi, la sua vescica è il mare, e i suoi sette organi principali sono i metalli nascosti nei pozzi delle miniere. Pertanto vi è un’articolazione fra le stelle – il sole – che nutrono le piante, e queste che a loro volta nutrono l’essere umano e tutti i viventi. Se il giardino di Eden – il luogo in cui l’essere umano può realizzare la sua beatitudine – si presenta con questa particolare conformazione, ciò significa che la dimensione originaria in cui l’uomo realizza la sua vocazione politica e in cui può portare a compimento l’antropogenesi, non è quella urbana ma quella rurale. Non sbaglieremmo nell’affermare che l’Eden doveva presentarsi come un unico grande mondo rurale in cui le città e il dominio che esse introducono non erano contemplati.

Dunque, il rurale non può essere assoggettato a categorie interpretative di matrice economica, come d’altronde si continua a fare, in quanto questo riconfermerebbe la logica di inclusione escludente. Esso piuttosto definisce una particolare condizione ontologico-politica dove il vivente vive come transeunte, non è separabile dal mondo vegetale e da quello animale, né tantomeno può abitare dominando su di essi ma, piuttosto, sperimenta una soglia in cui umano e animale, umano e divino sono sospesi, e la legge non è calata in modo autoritario dall’alto, ma è incarnata e cantata. È soltanto attraverso questa forma-di-vita che, forse, ricomponendo i frammenti del giardino perduto, l’essere umano può sperimentare la sua beatitudine.

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